“Psicologicamente sono sotto un marciapiede, è una cosa fantascientifica per me essere indebitato come imprenditore: sono sempre stato abbastanza preciso e oculato, non ho mai fatto il passo più lungo della gamba eppure mi trovo in questa situazione. Avevo investito in un progetto in cui avevo creduto tantissimo: il mio ristorante fino a febbraio 2020 era il posto dei sogni, in tutti i sensi”.
Risponde così lo chef Filippo La Mantia, quando gli chiediamo come sta. La notizia che lo riguarda è infatti rimbalzata in fretta sulla stampa italiana: a fine dicembre ha chiuso il suo ristorante a Milano e ha iniziato a condividere la cucina con Giancarlo Morelli, chef del Bulk Restaurant all’Hotel Viu Milan. Il loro è un esperimento di co-cooking pressoché inedito che, superati i passaggi burocratici legati alla collaborazione, consentirà temporaneamente al cuoco siciliano di continuare con il delivery e a Morelli di alleggerire le spese di uno spazio altrimenti operativo solo al 50 per cento.
“Dopo il primo lockdown - prosegue La Mantia - ho lavorato da maggio fino a ottobre. Poi, mi sono reso conto che, pur adeguandomi alle disposizioni e alle nuove regole, tra distanziamenti ed eliminazione di coperti, sanificazioni, mascherine, guanti, impianti di condizionamento rifatti, un ristorante come il mio non poteva reggere: le misure non erano in linea con lo spazio. Se avessi avuto un locale diverso, magari più piccolo, i conti sarebbero tornati. Ma ero partito con un progetto grande, con venti dipendenti: la formula era indovinata, il ristorante funzionava bene ma è successo qualcosa che è al di sopra di tutti noi. Non possiamo dare la colpa a nessuno”.
Incassi mancati, spese fisse: i numeri della chiusura
Tra le attività di La Mantia, oltre al ristorante, da sempre rientrano le consulenze, gli eventi e i catering. Inutile dire che, anche sotto questo fronte, è tutto fermo. Cosa significa rinunciare a quell’indotto tanto da decidere di chiudere un’attività? “Nel mio ristorante è saltato il 45% dei coperti, senza contare i buffet del sabato e domenica, sempre affollatissimi. Ho perso in pratica il 60% degli incassi, ma con le stesse spese fisse e tasse da pagare: tari, energia elettrica, stipendi. Ho pagato il 50% di affitto solo ad aprile e maggio, poi ho ricominciato a pagare il canone intero. Senza contare gli incassi per catering ed eventi, che ogni anno mi facevano guadagnare il 30-35% in più e che ora sono azzerati. Una situazione che è la morte non solo fisica, ma anche psicologica e mentale: per chi è abituato a uscire alle 9 del mattino ed essere attivo tutto il giorno, è stressante. Certo, abbiamo riscoperto i ritmi lenti e le famiglie, ma è davvero difficile”.
“L’oste e cuoco” più famoso d’Italia tocca, così, un tasto spesso trascurato: che ne è della dimensione psicologica e mentale di questa situazione di semi immobilità e incertezza? “In 60 anni non sono mai stato così triste, eppure sono sempre stato positivo”, ammette La Mantia: “I problemi non riguardano solo la nostra categoria – aggiunge lo chef – ma qualunque attività ritenuta non essenziale legata al benessere delle persone: i ristoratori, certo, ma anche chi lavora nel settore dello spettacolo, della musica e dello sport”.
“Quando penso alla cassa integrazione dei dipendenti - aggiunge - è come se si trattasse della mia famiglia, eppure c’è chi dice che noi imprenditori non vediamo l’ora di licenziare: non si può nemmeno immaginare quanto tempo ci voglia per formare una brigata affiatata e che funzioni, l’ultima cosa che vogliamo è proprio licenziare”. Per il momento, però, su eventuali nuovi progetti è molto cauto: “Ho chiuso il 31 dicembre, ora voglio aspettare i tempi tecnici di normalità per aprire un ristorante. Sto ricevendo tante proposte, ma oggi non sono in grado di investire a livello economico sul mio lavoro, prima devo estinguere i debiti: valuterò se prendere in considerazione qualche situazione in cui posso inserirmi senza espormi finanziariamente”.
"Giovani chef, pensate al plurale"
E quando gli chiediamo se abbia qualche consiglio per i giovani chef, nonostante il momento difficile, La Mantia non ha dubbi: “Leggo migliaia di commenti cattivi, ma è assurdo sostenere che i cuochi famosi abbiano più soldi: non è così. Ai giovani voglio dire che bisogna pensare al plurale, non al singolare: bisogna cercare nuovi input, nuove idee, scambiare energie, cercare di far convivere la grande passione con il lavoro. L’amicizia è l’unico lusso che ci rimane in questo periodo: bisogna essere umili, come umile è il lavoro che facciamo, nutrire le persone. Negli anni ‘70-’80 facevo il fotoreporter e vedevo che nelle case delle persone meno abbienti il momento clou era proprio quando si apparecchiava la tavola: nella nostra cultura gastronomica, i piatti forti sono quelli che provengono dalla cucina casalinga, quelli per cui bastava andare al mercato, fare la spesa e inventarsi qualcosa che nutrisse il più possibile, in un momento di condivisione”. Una cosa che, forse, dovremmo imparare a ricordare tutti più spesso.