Sicilianissimo, carismatico e un po' ribelle. È lo chef, anzi, il cuoco - come ama definirsi - che non ti aspetti. Non usa cipolla, aglio o soffritti, ma ha i sentori della sua bella isola nel cuore. Profumi e sapori che rivivono nei piatti della sua memoria, a partire da caponata e cous cous. Filippo La Mantia, "Oste e Cuoco" nel fortunato ristorante di Milano che porta il suo nome, ha da poco avviato nuove consulenze, dal Caffè San Giorgio, a Venezia, all'ultimo nato, il Caffè Fernanda, all'interno della Pinacoteca di Brera.
Inaugurato a maggio, quest'ultimo è un ristorante e bistrot che omaggia nell'insegna la storica dell'arte Fernanda Wittgens, la prima direttrice donna della Pinacoteca (nonché la prima donna a rivestire un ruolo così importante in Italia). Un luogo dove il fil rouge con l'arte è molto stretto, tanto quanto il legame con il La Mantia-pensiero: un approccio che è sempre rigoroso nella scelta delle materie prime, ma informale allo stesso tempo. Capace di trasportare all'istante in riva al mare, a Palermo, tra sapori che sanno di casa e profumo di finocchietto selvatico.
Non ha iniziato subito a lavorare in cucina, prima faceva il fotografo: cosa l'ha spinto verso questo mondo?
In realtà non mi sento dentro "questo mondo", io vivo il lavoro di cuoco in un’altra maniera: non ho in me tutti i parametri che implicherebbe, nel senso che vivo questa attività come una questione di grande passione, di grandi prestazioni. Il mio obiettivo è far sì che il cliente sia contento, perché è il consumatore finale che decide se il tuo progetto funziona o non funziona. Tutti i giorni io mi relaziono con un ospite sia per un caffè che per una cena: faccio un lavoro che è dedicato agli altri. Per questo mi ritengo un po’ un animale differente in questa sorta di circo, dove tutti vogliono esserci e apparire, perché ormai tutti parlano di cibo. Ormai ho limitato le mie esternazioni legate al cibo, da anni. Semplicemente io faccio da mangiare: se alla gente piace... bene, altrimenti non importa.
Evidentemente, però, la sua cucina piace: il ristorante Filippo La Mantia - Oste e Cuoco è sempre pieno, è quasi difficile prenotare...
Sì, anch’io sono piacevolmente sorpreso di questo. Lo vedo quando chiudo per ferie: anche se l’anno prossimo sarà il mio ventesimo anno di attività da quando ho iniziato a fare il cuoco, ogni volta che chiudo per andare in ferie ho il timore che la gente poi non torni... è un sentimento sano, però: non sono mai sicuro di nulla, per me ogni giorno è come se fosse il primo. In realtà, vedo che prima della riapertura, al rientro dalle pause, sia estive che invernali, sono pieno di prenotazioni, con la segreteria telefonica piena: la gente aspetta che io torni dalle ferie per venire a mangiare da me e questo è bello.
Il Caffè San Giorgio, all'interno della Fondazione Cini a Venezia
Perché, secondo lei, arriva in maniera così diretta la sua cucina al pubblico?
Io ho una brigata straordinaria di 14 persone, alcune di loro cucinano di gran lunga meglio di me. Non lo dico per mancanza di rispetto nei miei confronti, semplicemente perché è la verità: è gente che ha una tecnica, ha studiato… Io invece sono un autodidatta, ma se devo preparare un piatto di pasta adesso so benissimo che viene bene perché è molto buona: è così.
Il suo approccio è diverso, infatti, non si definisce chef, ma "Oste e Cuoco"…
Non perché io voglia fare il diverso, ma ho proprio un trascorso diverso: quando vado a cena dai miei amici chef stellati, noto la diffrenza. Il punto è che la cucina oggi sembra intesa solo come stellata: i media hanno calcato questo concetto. Anch’io vengo ritenuto uno stellato perché ho un bel ristorante e lavoro sempre, ma la mia lotta quasi giornaliera è quella di correggere quello che viene scritto, in maniera errata. Di fatto non ho una stella Michelin, le stelle hanno dei parametri ben definiti: non è che ci soffro - anche se, certo, se mi arrivasse una stella non la butterei via - ma lavoro comunque tanto, tra le consulenze e il ristorante, molto bello, totalmente mio. I miei risultati, alla vigilia dei sessant’anni, li ho raggiunti.
Secondo il suo pensiero, quindi, in cosa è diverso un cuoco da uno chef?
La correzione che faccio spesso, quando mi chiamano chef, è che è come chiamare un geometra “architetto”: i miei amici chef hanno studiato, hanno fatto un percorso totalmente differente, hanno appreso la tecnica, hanno approfondito le basi importanti degli ingredienti, le reazioni che hanno, a seconda di come vengono trattati, perché la cucina è anche scienza. E loro, per me, sono un mondo parallelo e straordinario. Quest’estate sono andato a mangiare dai miei amici Cuttaia, Sultano, Cedroni: fanno dei piatti che mi emozionano, cui non potrei mai arrivare, dentro c’è una sapienza quasi incredibile dal punto di vista tecnologico, li ammiro tantissimo. Io invece non ho avuto il tempo, anche perché ho iniziato a fare questo lavoro a 40 anni, non avevo più la testa di studiare. E poi, io le cose le devo fare a modo mio, per come mi piacciono: finché il mio approccio piace alla gente, a me va bene. Altrimenti, andrò a suonare.
Filippo La Mantia e Angela Adamo al Caffè Fernanda, all'interno della Pinacoteca di Brera
Un palermitano a Milano: c’è sempre tanta Sicilia nella sua cucina... le manca?
Io lavoro solamente con e per la Sicilia, sono un po’ “egoista” in questo. Mi rendo conto che il mio “successo” è dovuto alla mia isola, alle mie origini, alle mie tradizioni, ai miei ingredienti, anche se - da quando ho iniziato a fare questo lavoro - non ho mai utilizzato aglio, cipolla e soffritti (cosa che venti anni fa era fantascienza allo stato puro). Semplicemente perché non mi piacciono, e la gente ha apprezzato la mia caparbietà nel mandare avanti questo progetto, a discapito della tradizione più pura. Per questa scelta ho ricevuto tanti insulti, ma evidentemente faccio qualcosa che alla gente piace, perché il 90% delle persone che vengono a cena da me lo fa principalmente per questo motivo. Ho mandato avanti una mia idea di cucina: leggera, digeribile, con una materia prima buonissima - l’unica cosa su cui non risparmio un centesimo sono proprio gli ingredienti - e la gente lo sente. Poi ho portato la mia filosofia anche in altri luoghi, come la Pinacoteca di Brera, la Fondazione Cini a Venezia, oltre ai numerosi eventi che seguo.
A proposito di consulenze, come è nato il Caffè Fernanda, l'ultimo progetto alla Pinacoteca di Brera?
Grazie al Gruppo Fabbro, che gestisce diverse realtà, dalle mense alle società di servizi: mi contattarono perché stavano partecipando a un bando, avevano fatto una sorta di indagine di mercato sui nomi della gastronomia che tirano, e uscì il mio nome per primo. Così, mi hanno contattato e ci siamo incontrati nel vecchio caffè alla Pinacoteca di Brera, dove abbiamo fissato l'appuntamento: non ero mai entrato e ho pensato “che bello questo posto”. E ho subito proposto: facciamo il primo progetto insieme qui! Ho chiamato Angela Adamo, cuoca bravissima che aveva lavorato da me quattro anni e che si era fermata per un anno "sabbatico", durante il quale ha girato tanto. Una volta rientrata, l'ho mandata in brigata da alcuni chef stellati, tra cui Pino Cuttaia, quindi le ho chiesto di tornare sulle scene e prendere in mano le redini della cucina del Caffè Fernanda.
Se dovesse cambiare attività, oggi cosa farebbe?
Suono uno strumento da quarant'anni, l’armonica a bocca: ho una mia band e se dovessi cambiare mestiere credo che mi dedicherei totalmente alla musica.