Lo scorso 14 maggio si è tenuta la cerimonia online degli Asia’s 50 Best Bars, la lista dei migliori cocktail bar in Asia. A salire sul gradino più alto della classifica è stato Jigger and Pony, un hotel bar a Singapore che negli ultimi anni si è fatto conoscere per i suoi cocktail e il lavoro divertente e certosino che sta dietro la drink list. Anche se chiamarla drink list è riduttivo, visto che ci si trova davanti a un vero e proprio magazine. Dal nono posto al primo in un anno: segno che il lavoro cominciato due anni fa nella nuova location ha allietato e stupito un mondo della mixology in costante movimento come quello asiatico.
Certo, molti si chiederanno perché la classifica dei migliori bar in Asia dovrebbe essere così importante e la risposta è presto detta: non c’è alcun dubbio che i bar asiatici - da Hong Kong alle Filippine - abbiano visto negli ultimi anni una nascita, una crescita vertiginosa e si ritrovino ora a essere faro per molti cocktail bar europei o statunitensi. C’è voglia di osare, di spingere su innovazione, sostenibilità e sapori. I design all’interno dei bar sono spesso magnifici o ultramoderni o iperminimalisti, o ancora rigorosamente classici.
E in Asia, in quel Jigger and Pony che ha conquistato il primo posto in classifica, c’è anche un pizzico d’Italia. Giovanni Graziadei è l’head bartender, deve compiere ancora 27 anni e ha risposto ad alcune domande per noi.
Da quanto tempo è approdato a Singapore?
Io sono di Torino e mi sono trasferito a Singapore da quasi due anni per fare parte della famiglia Jigger and Pony. Ma ho lasciato l’Italia a 19 anni per andare a Londra, dove ho iniziato seriamente a fare il bartender. Tra le esperienze fatte lì, sicuramente quella al 69 Colebrooke Row (della leggenda della mixology Tony Conigliaro, ndr) è quella che mi ha segnato di più.
L’anno scorso in classifica Jigger and Pony era al nono posto. Vi aspettavate di arrivare primi?
Io personalmente tendo al pessimismo: per me in qualsiasi posizione siamo dobbiamo aspirare a dieci numeri in più per fare sempre bene. Ce lo aspettavamo? Sì e no. Ci aspettavamo magari di essere ancora tra i primi dieci, al massimo di prendere il premio come miglior bar di Singapore. Ma è stata una sorpresa, abbiamo fatto una bella videochiamata tutti insieme per festeggiare.
Cos’è cambiato dall’anno scorso?
Jigger and Pony era aperto da otto anni. Poi si è dovuta lasciare la vecchia sede, e il proprietario (Indra Kantono, ndr) si è trovato davanti a un bivio: lasciare che Jigger and Pony morisse, o dargli una nuova immagine rilanciandolo in una nuova location. Oggi siamo un bar dentro un hotel, ma che lavora indipendentemente dall’albergo. Un po’ come a Londra. Sicuramente il primo anno in una nuova location ci si deve assestare. E poi mi sento di dire che abbiamo lavorato tantissimo sul menu: abbiamo fatto un vero e proprio magazine con i drink, ma anche con una parte fotografica e redazionale ben curata. Questo è il terzo magazine che facciamo. Era una sfida. Un modo complicato per fare un menu di drink, ma siamo molto soddisfatti.
E com’è fatto questo menu?
Dunque, partiamo sempre dal titolo del magazine, che corrisponde a un tema. Quello di adesso si chiama Decade Ahead, il decennio che verrà. Abbiamo pensato che il 2020 aprirà una nuova decade nel mondo della mixology: cosa vogliamo vedere nei prossimi dieci anni? Per noi la risposta è drink minimalisti e semplici, anche se manteniamo sempre una base di classici. Il cliente deve sentirsi a proprio agio mentre beve, e libero di chiedere se viene preso dalla curiosità. Niente di complicato, quindi. Per fare un esempio, il Negroni viene servito con un lecca-lecca al Campari: nel drink c’è una parte meno invadente di bitter, che puoi completare con il lecca-lecca. E poi cerchiamo di dare spazio a nuove collaborazioni: come quella che stiamo facendo con un produttore di cioccolato locale. Con cui collaboriamo per studiare le varie sfaccettature del cacao.
Mette un po’ di Italia quando pensa alle ricette?
Più che portare ingredienti italiani nel drink, penso italiano a livello di approccio alla ricetta. Mi piace la semplicità racchiusa in piccoli elementi che si devono sentire: gli ingredienti devono essere di qualità e bilanciati in modo che si sentano tutti distintamente. Come un classico, semplice, spaghetto pomodoro e basilico. Al Martini Cocktail è esattamente così che mi approccio.
In questi tempi difficili e decisamente molto strani, i bar di tutto il mondo hanno dovuto chiudere. Ma alcuni, soprattutto in Asia, stanno cercando delle alternative in questo periodo di lockdown. Voi cosa state facendo?
I primi tempi, per partire subito, abbiamo cominciato a fare dei cocktail in piccole porzioni chiusi in sottovuoto per i delivery. Sono stati un grande successo, anche perché abbiamo visto con piacere che l’abitudine del cliente non è cambiata molto: la gente usa i drink come momento per staccare la testa, molti lo usano invece come regalo da mandare ad amici e familiari. Oggi invece abbiamo fatto delle bottiglie con tanto di etichette disegnate a mano. Penso che possiamo imparare molto da questo momento. È una buona occasione per capire un nuovo sistema utile anche in futuro. C’è da dire che qui è molto diverso: le persone sfruttano il delivery da molto più tempo che in Italia, molta gente mangia così tanto fuori, o ordinando, che non ha nemmeno la cucina. E il governo è molto più flessibile per quanto riguarda i delivery, è più semplice.
Cocktail preferito?
Un whisky highball, con soda. Qui ne facciamo uno mettendo del whisky giapponese insieme a un’acqua minerale molto morbida e poi carboniamo tutto assieme. È una cosa semplicissima, ma cambia tutto il drink.