Intervistare Giulio Terrinoni non è facile. E non perché sia poco comunicativo, tutt'altro. Però la conversazione viene spesso interrotta dagli accordi che deve prendere con i fornitori, dalla valutazione del pesce che è appena arrivato al ristorante, dagli ordini che impartisce alla brigata. Terrinoni è uno di quegli chef che non staccano mai. Vacanze? "Vado alle Maldive una settimana a gennaio. Ma è sempre per lavoro..." sorride.
Da quando, un anno fa, ha aperto Per Me (ve ne abbiamo parlato qui), lo chef si è assentato pochissimo dal ristorante. "I miei clienti mi vogliono vedere. Ho una squadra fantastica, ma è ovvio che 'l'occhio' dello chef sia insostituibile. Ed è importante uscire in sala".
Per Me si è già creato una clientela fissa?
Ho clienti che mi seguono da quando ho cominciato all'Acquolina Hostaria, dieci anni fa (stella Michelin nel 2009, NdR). Da me vengono anche molti stranieri, che sono quelli più incantati dal posto e felici di trovarci molti romani: sentono che sia davvero un luogo "autentico" della città.
Qual è stato il suo percorso prima dell'Acquolina?
I miei genitori possedevano un ristorante molto tradizionale a Fiuggi, i miei giocattoli erano il mestolo e la frusta. Ma ho scelto l'alberghiero più per pigrizia - era davanti a casa - che per altro. Non ho fatto una grandissima scuola né grandissimi stage, ho fatto la gavetta. Ma ho incontrato grandissimi maestri, quello sì.
Chi sono stati i più importanti?
Antonio Ciminelli de La Torre di Fiuggi: un mattatore ma anche colui che per primo mi ha fatto conoscere - e capire - il territorio. Io venivo dall'hotellerie, per ottenere qualcosa alzavo il telefono, non ero abituato a parlare con i produttori. E poi lo chef Fabio Tacchella.
Non ha mai fatto un percorso di formazione all'estero. Pentito?
Da ragazzino volevo imparare bene la cucina italiana prima di andare all'estero. E così ho fatto: ora mi chiamano per consulenze ed eventi. Forse con uno stage all'estero mi sarei contaminato di più, chissà. Ma sono contento di aver puntato tutto sul fare italiano di qualità.
Cosa l'ha spinta ad aprire un ristorante da solo?
Un po' di follia è fondamentale. Mi ritengo una persona coraggiosa; da piccolo ero quello che alzava sempre la mano per dire cosa non andava. Come si dice da noi, "Non sapevo tenere un cece in bocca!". Per Me è stato il mio "piano B" dei 40 anni. Mi sono chiesto: cosa vuoi fare per i prossimi 20 anni? Ero uno chef, sto diventando ristoratore.
Il ruolo più difficile?
Quello dell'imprenditore: è quello che non finisce a mezzanotte, quello a cui pensi appena ti svegli.
Aveva già un'idea precisa in testa o si è sviluppata strada facendo?
All'inizio ero partito da un concetto più semplice: i tappi, piccoli assaggi, e un ambiente sempice e rassicurante. Poi è scattato un senso di sfida: volevo essere almeno allo stesso livello dei miei vicini!
Come definisce la sua cucina oggi?
L'incontro tra i prodotti del mare e la tradizione di terra in cui mi sono formato. Contemporanea, italiana ma molto personale. Il piatto più rappresentativo è sicuramente la Carbonara di mare, un omaggio alla città: bottarga e uova di pesce.
Il prodotto più interessante scoperto nell'ultimo anno?
La rana pescatrice, il vero maiale del mare. Uso tutto: la testa, il filetto per la porchetta, la trippa per lo stomaco, il fegato per il diplomatico.
Il 2016 vi ha portato un successo straordinario, e la prima stella Michelin. Il prossimo anno?
La parola d'ordine del 2017 è blindare. Custodire tutto quello che abbiamo fatto.