Varcare la soglia del ristorante Il Pagliaccio a Roma è già di per sé un’esperienza. Da quando, poi, il locale è stato interamente rinnovato - e rinfrescato - negli arredamenti, lo è ancora di più. Unico due stelle della Capitale, già da quando si fa il primo passo al suo interno, si sente nell’aria che, una volta accomodati al tavolo, ci si divertirà. Con un alone di serietà intorno, appropriato, ma anche e soprattutto uno di creatività nel piatto.
Il Pagliaccio, nel 2019, è tornato dopo un restyiling non indifferente che grida sottilmente “stiamo costruendo un grande passo”, uno più grande delle due stelle Michelin, per intenderci. Nella sala regnano i colori scuri ma non troppo, oltre alle luci puntate e soffuse, moderno segnale di raffinatezza minimalista. Qui si viene accolti da Matteo Zappile, brillante padrone di casa affiancato dal preparatissimo Luca Belleggia. Insieme stanno costruendo una delle migliori cantine della Capitale e non solo.
La massima cura con la quale Il Pagliaccio è risorto, mi piace dire che riparte anche da una sala impeccabile (la sala vale tanto quanto la cucina, non si discute). Per fare un paio di esempi: il vostro tavolo non sarà quello accanto a un altro con commensali della vostra stessa nazionalità, in modo da godervi la cena con la persona che vi accompagna senza essere disturbati da frammenti di conversazione affine. E poi la giustizia di una carta di tè accuratamente scelta per accompagnare il pasto in caso non desideriate bere vino. Parliamo di tè molto importanti, di quelli che dissetavano imperatori cinesi.
E sulle note del tè e dei suoi richiami all’Oriente, è giusto applicare la formula della cucina di Anthony Genovese. Un po’ calabro, un po’ francese e un’anima contesa tra Occidente e Oriente che si traslittera nelle creazioni servite. Che un pasto da chef Genovese fosse appagante è stato appurato da tempo: la prima volta che si assaggia un suo piatto, si scopre che c’è qualcosa di più: un gioco che rimbalza nel palato, un gioco che ti conosce in maniera inaspettatamente profonda. Se un piatto ti fa pensare per più di un’ora, allora sei davanti a qualcosa di interessante, che ti sia piaciuto o meno. Il pensiero è la chiave per leggere il nuovo menu de Il Pagliaccio.
Le altre parole da tenere bene a mente sono “stagionalità” e “tailor made”. La prima non ha bisogno di spiegazioni, se non il fatto che, effettivamente, la carta cambia velocemente tracciando scie sfumate di colori. Il concetto, invece, del “Fatto su Misura” è nuovo, porta un ristorante due stelle ad alzare l’asticella e fa capire quanto, alla base di tutto, ci sia il cliente al centro.
Il più grande dei menu degustazione, Circus, da dieci portate, non ti fa scegliere i piatti che desideri, quello spetta alla fiducia che si mette nelle mani di chef Genovese. Ma in prima pagina si ritrovano degli ingredienti che si può scegliere di avere o non avere. Da lì parte un viaggio che, in questo modo, è tagliato a misura su ogni commensale: qualcosa che va fuori da ogni schema razionale della cucina che è, invece, per chef e sommeliers, motivo di sfida continua.
L’Infuso di Albicocca e Spezie (con tanto di panno caldo profumato) è un ingresso che richiama quell’Oriente dove ha avuto la fortuna di lavorare e che tanto l’ha segnato. Un'entrata che fa capire l'andamento del pasto. Si prosegue con un Gambero Fritto in Foglia di Shiso e Maionese al bambù, per la giusta dose di godimento puro e da qui si inizia a scherzare sul serio col Pagliaccio.
Gli amuse bouche sono un ciclo continuo di divertissement gustativi: gli ingredienti sono nascosti e frequente è la domanda “scusa ma c’era per caso…?” E inevitabilmente è qualcosa di simile che ti porta fuori strada.
Non mancano certo, oltre agli scherzi, i sapori più decisi, quasi spinti. Il Gambero con Micro-Gamberetti giapponesi, salsa di Ibisco, Mirtilli e Cipollotto Agrodolce è un gioco di toni aspri in contrapposizione alla bellezza della materia che si ha davanti, armonicamente placida. La Tartelletta di Carciofi e Pecorino è omaggio alla cucina e alla sua terra francese e la dimostrazione palpabile di una tecnica perfetta, non c’è mica solo sostanza.
Il primo, le Fettuccine di Cacao Amaro e Topinambur con funghi Spugnole, ha una complessità inaspettata, un viaggio che ti porta nel sottobosco senza avvisarti, e lo fa con decisione. E l’Anguilla laccata con Succo di Carota accompagnata da Carota Disidratata, Polline e Alghe è la summa di quello che Anthony Genovese fa al Pagliaccio: hai davanti potenzialmente qualcosa che a rigor di logica avrebbe lo stesso sapore, in consistenze diverse, e invece la logica non è di quel ristorante.
Lo assaggi e senti ogni minima differenza di ogni elemento che il palato possa prendere in considerazione. Dal grasso del pesce alla palette di dolcezza della carota in diverse forme.
Inutile dire che il dolce, con Noci di Pecan, Olio al Bergamotto e Gelato al Grano Saraceno è quello che vorresti sempre. Così come dovrebbe essere un dolce alla fine di un pasto.
Se ci fosse solo un appunto da fare, sarebbe per una sala forse troppo presente. Ma questo non ne cambia la piacevolezza, è solo questione di abitudine.
Il Pagliaccio di chef Anthony Genovese e della sua squadra sta correndo, forte, verso qualcosa di più alto. Si sente, si vede, si legge nell’aria la determinazione e la voglia di creare senza sosta, ma con i piedi sempre più per terra. Lo chef è uno di quei cuochi che trovate in cucina a pranzo e a cena, non fa finta di cucinare firmando un menu: lui cucina.
Questo fa trasparire l’amore per la sua creatura, per il cibo, per l’esperienza che trasmette con grandissimo piacere ai cuochi che stanno al suo fianco (e di cui inevitabilmente si portano via l’impronta quando aprono un ristorante tutto loro) e per l’alta cucina. Che è fatta del suo territorio, delle sue origini e dei viaggi. Queste sono le cose che fanno la differenza.
Guardare. Capire. Aprire la testa. Donare.
Photo credits: Aromi Creativi - Courtesy of Il Pagliaccio