“Per essere bravo in questo lavoro devi curare contemporaneamente sia l’aspetto numerico ed economico sia quello creativo: quando una persona ingrana su entrambi, riesce”. Occhi vispi, aria sbarazzina e un periodare sicuro, analitico, capace di non trascurare alcun dettaglio e di lasciare emergere quel dualismo magico fatto di istinto e razionalità che la contraddistingue. Proprio come i suoi locali. Ilaria Puddu è l'anima di molte insegne di successo nate a Milano negli ultimi anni. Ha origini sarde, ma è nata e cresciuta a Saronno, un po' ribelle e un po' sognatrice. Definirla imprenditrice è riduttivo: nelle sue mani, un’idea appena nata si sviluppa, vede la luce e si trasforma in realtà, anche nel giro di soli tre mesi, con un approccio (e uno sguardo) a 360 gradi. Cruciale l’incontro, nel 2011, con il socio Stefano Saturnino, con cui Ilaria ha aperto ben 47 locali e dieci brand in nove anni.
Ecco allora celebri format gastronomici che vanno dalla pizzeria Marghe, inaugurata a febbraio 2016, a Gelsomina, la pasticceria aperta a novembre 2018 che ha da poco raddoppiato in via Fiamma; dalla pizzeria Giolina, che lo scorso marzo ha compiuto un anno, alla nuovissima Crocca, inaugurata a luglio, dove la pizza è sottile e croccante, in pieno mood anni Ottanta. Tutte facce della stessa medaglia, tutte ispirate a figure femminili in cui Ilaria mette un po’ di sé, sublimando un’indole o un lato del suo carattere, proprio come farebbe uno scrittore con i personaggi di un romanzo.
Ecco che cosa ha raccontato Ilaria Puddu a Fine Dining Lovers.
Qual è stato il suo percorso, come si è avvicinata al mondo del cibo e della ristorazione?
Dopo il liceo classico e la laurea in Relazioni Pubbliche allo Iulm, ho iniziato a lavorare nel mondo della comunicazione e degli eventi, facevo tutt’altro. Un giorno un amico mi chiama e mi dice che un suo conoscente con tre bar a Milano aveva bisogno di un supporto: era Stefano Saturnino, che era il capo da Panini Durini, nel 2012. Da lì è iniziato il mio percorso, mi occupavo dello sviluppo del team e della catena di Panini Durini: io e Stefano abbiamo aperto fino al quindicesimo punto vendita, poi abbiamo deciso di buttarci nel mondo pizza, quando non era ancora esploso il boom. Così, un giorno Stefano mi chiama e dice "Ho trovato il pizzaiolo, entriamo in società". E da lì è iniziato: prima con Marghe, poi Pizzium, Giolina, Gelsomina, Crocca… Ho dovuto provvedere a una formazione sul food retail, sulla creazione di format, su aspetti economici. Stefano con me ha sputato sangue, provenivo da una percorso completamente diverso: ho dovuto imparare a fare conti e bilanci, che non mi appartenevano, e che poi, in realtà, mi sono piaciuti. Ho imparato a 360 gradi tutto sul food retail: dalla gestione delle risorse umane all’interior design, dall’amministrazione alla comunicazione. Dividersi tra vari ruoli è la parte più divertente, che non ti fa annoiare mai.
Quali sono le qualità necessarie per svolgere al meglio questo lavoro?
Io non so se sono brava, ma sono molto ambiziosa: serve avere obiettivi chiari e visione chiara di ciò che si vuole fare. Quando è nata Pizzium, per esempio, l'idea era sin dall'inizio quella di farci una catena. Invece Gelsomina e Giolina sono nate per rimanere delle chicche, quindi hanno approcci diversi. Bisogna avere una buona propensione al rischio, dunque non avere paura. Serve tanto impegno, tanto lavoro, non puoi mollare un attimo, non puoi improvvisarti, ma allo stesso tempo non puoi avere timore di rischiare, perché non tutti i brand che ho creato hanno spaccato, insomma non tutte le ciambelle vengono col buco. Bisogna essere lungimiranti, quindi, e cercare di capire cosa può accadere in futuro: anticipare le mode, ciò che può andare, ciò che può essere un problema futuro… Per esempio, poco prima del lockdown, abbiamo pensato alle conseguenze, al delivery. È importante studiare e fare tanta ricerca perché non basta aprire solo un locale: questo è un lavoro impegnativo in cui bisogna essere sempre e costantemente sul pezzo, perché i locali sono davvero come figli da accudire. Non puoi sbagliare niente sotto nessun aspetto, è un lavoro veramente impegnativo, 365 giorni all’anno, se vuoi ottenere determinati risultati. In questo settore è importante una cosa: un bravo imprenditore deve riuscire a lavorare contemporaneamente sia su quello che è l’aspetto più numerico ed economico sia quello creativo, perché, è vero che la visione imprenditoriale la dà l’imprenditore, ma quando la persona riesce a ingranare su entrambi gli aspetti, riesce. È una cosa che Stefano mi ha sempre insegnato: è la parte più difficile del lavoro, ma bisogna imparare a gestirla.
Re Mida trasformava tutto in oro, lei trasforma ogni format food in un successo: qual è il suo segreto?
Oltre a conciliare i due aspetti, creativo ed economico, è importante considerare che i locali sono piccole aziende: devi stare attento a ogni minimo dettaglio e all’aspetto economico, ma poi c’è tutta la parte di idee, cioè pensare a ciò che può funzionare e come. È esemplare quello che è accaduto con Gelsomina. La premessa è che noi facciamo sempre tanta ricerca su ciò che succede all’estero e sul format che può mancare a Milano, e avevamo il pallino della pasticceria. Quando Panini Durini è stato venduto, abbiamo rilevato il laboratorio: sopra c’era questo spazio grande e abbiamo pensato di buttarci nel mondo del dolce. Io lì sapevo che dovevo fare un locale che dovesse essere diverso dalle altre pasticcerie in quel momento, super instagrammabile - perché era il momento del boom dei social. Sapevo perfettamente che con quel tipo di dettagli, di comunicazione e di prodotto il locale avrebbe funzionato. Poi, comunque, ci sono cose che capitano casualmente e del tutto imprevedibili, come il maritozzo, che è diventato il dolce iconico di Gelsomina, il più famoso di Milano. Era l’ultimo dolce che avevo messo in carta e che avrei pensato potesse andare… non ci avrei scommesso! Poi è andato di moda… Questa la grande soddisfazione: trovare elementi talmente forti che prendono piede e che poi riprendono tutti, proprio come è successo con il maritozzo. È importante anticipare le tendenze: è successo quello che succedeva con la moda negli Ottanta, negli ultimi anni: oggi è più il food che detta i trend, visto che il food fa tendenza sotto ogni punto di vista (social, fotografico, ecc.). A volte su Instagram le persone fotografano più food che l’accessorio di moda, e abbiamo cercato di cavalcare l’onda.
Ogni format si ispira a una figura femminile: ci racconta il concept e l’ispirazione per ognuno?
Questo filone di locali al femminile è nato con Gelsomina. Lo studio del nome è sempre difficile: in quel caso, volevamo ispirarci al Sud dell'Italia. Inoltre, abbiamo scelto un nome di persona perché il nome italiano funziona sempre all'estero, e vorremo aprire locali anche fuori dai confini nazionali. Gelsomina è la mia parte più romantica, naïf e sognatrice, legata al Sud: è la cura delle stoviglie, dei piccoli dettagli, più delicati. La parte di me più dandy-rock, invece, da cinema e film di Tarantino, da libri di Bukowski e whisky, si è trasformata in Giolina, che è la sorella ribelle, che vive anche la notte e che racchiude altre mie passioni. Tutte e due, però, hanno ciò che a noi piace realmente nella vita: il vintage, l’arte a 360 gradi, il recupero… Quindi, dove c'è stata la possibilità, abbiamo inserito questi elementi. Da Giolina abbiamo anche appeso delle illustrazioni di artisti contemporanei: è un modo per racchiudere le altre nostre passioni nel format.
Quali sono le difficoltà che un giovane può incontrare per fare questo lavoro?
Sono tante. Ci può essere la poca preparazione, e io ho avuto la fortuna di avere accanto Stefano che mi ha insegnato tanto. Ma anche la poca esperienza può portare a gestire in maniera non adeguata la parte economica per l’investimento della nuova attività. Altro aspetto complesso da gestire è un’idea non vincente, o pensare di aprire un locale che vada da solo. È difficile trovare persone valide che ti aiutino a portare avanti i progetti, perché ad oggi è vero che il food retail è molto forte in Italia, ma è altrettanto vero che c’è ancora poca professionalità, non ci sono molte figure preparate a livello manageriale o altro, quindi bisogna faticare il doppio per formarle. All’estero è diverso: a Londra il direttore di un locale è un manager vero e proprio, che qui in Italia trovi in genere solo nell’hotellerie o in un ristorante stellato, mentre sulla fascia intermedia, dove ci collochiamo, è diverso: da parte nostra c’è un lavoro costante di formazione, controllo, motivazione… È la parte che ti consuma più energia! Hai spesso a che fare con persone che hanno retaggi diversi nel food retail, e spesso fai fatica, affronti tanti problemi. Il team è importantissimo, abbiamo appurato che, tutte le volte che c’era un calo in un locale, al 95% accadeva perché c’era un problema di staff: a volte basta cambiare store manager e due camerieri per risolvere la situazione.
Qual è stata la più grande soddisfazione che ha provato durante la sua carriera di imprenditrice?
Molti, fino a non molto tempo fa, non sapevano chi c’era dietro i nostri locali, e la cosa che mi ha dato più soddisfazione (e che ricorderò per sempre) è stata quando ho visto il frutto del mio lavoro, con un articolo importante dedicato a me, una pagina sul Corriere: sapevo di regalare una gioia immensa ai miei genitori, che avevo sempre fatto disperare, perché ero una ribelle. Finalmente davo a loro, che hanno fatto sempre tanti sacrifici per me, una grande soddisfazione. Ho provato una gioia immensa anche quando sono riuscita a portare i miei ragazzi di Marghe, giovanissimi, a Identità Golose, al fianco di fuoriclasse del calibro di Franco Pepe.
C’è invece una delusione o un errore iniziale da cui ha imparato qualcosa?
Sono dovuta cambiare tanto a livello caratteriale per affrontare il mondo imprenditoriale: ero molto aggressiva all’inizio, nel senso che vedevo solo quello che volevo io, ero molto solitaria. Da quando è morto Matteo Mevio, il pizzaiolo che era mio socio di Marghe, è come se avessi avuto un cambiamento: mi sono trovata da sola con due squadre da gestire e ho capito che il lavoro in team è importante, perché tutti possono avere delle idee che possono essere migliori della tua, tutti hanno qualcosa da insegnarti. Ecco perché credo che motivare i dipendenti e lavorare insieme a loro sia importante. Con i miei dipendenti lavoro a più mani oggi, coinvolgo tutti ogni giorno, chiedendo se c’è qualcosa da migliorare, se manca qualcosa: si sentono quasi più partner che dipendenti, così riescono anche ad approcciarsi di più al raggiungimento degli obiettivi. Quest’attitudine ci ha portato a far crescere qualcuno di loro, che è entrato in società: l’approccio così cambia completamente, è molto anglosassone ma funziona. È una soddisfazione anche per loro vederli crescere.
Come vede il futuro della ristorazione?
È un momento difficile più che altro perché si ha un futuro incerto. Se devo fare delle analisi, però, oggi io ho dei locali che stanno funzionando più dell’anno scorso. Abbiamo inserito solo per il lockdown il delivery, ci siamo sempre opposti a questo servizio… ma durante il confinamento abbiamo lavorato solo con la consegna a domicilio, e a Milano è esploso il boom. Al punto che siamo riusciti a fare dell’utile solo col delivery, e abbiamo deciso di tenerlo perché va a compensare la parte mancante della sala, visto che abbiamo dovuto togliere diversi tavoli. Giolina oggi sta fatturando molto più dell’anno scorso, mentre gli altri locali stanno procedendo come l’anno scorso, o hanno una perdita irrisoria… Certo, sono stati mesi tosti, ma siamo sempre riusciti a rimanere in utile e ad oggi la situazione è diversa: da inizio settembre si è ripresa ed è cambiata. Mi è dispiaciuto vedere tante realtà non reggere la crisi e chiudere: mi è pianto il cuore, ma penso pure che chi oggi sta reggendo è perché ha lavorato bene prima, senza ombra di dubbio; chi era già in difficoltà prima, invece, non ha retto. Ci sono tante nuove realtà che, nonostante tutto, continuano ad aprire, e questo è un bel segnale per Milano: la città deve rimanere viva e andare avanti, non si ha paura, questo significa creare nuovi posti di lavoro e non fermarsi (entro certi limiti ovviamente). C’è un bel sottofondo, un bel movimento, nonostante tutto.
Secondo lei cosa dovrà cambiare nei format del cibo per sopravvivere a questa delicata situazione?
Noi siamo stati un po’ impreparati per questo periodo lungo, di crisi vera, la prima della mia generazione: un momento che ci ha allo stesso tempo permesso di fare un po’ di pulizia. Non tutti, però, hanno la forza economica, non solo di trovare soluzione, ma anche di modificare il proprio business, e oggi ancora più di prima c’è la voglia di fare le cose bene. Tutti stanno alzando il livello e ti devi adeguare, adesso non puoi permetterti di sbagliare niente, bisogna essere al massimo su tutto: prodotto, comunicazione, servizio. Credo che ci sarà sempre più un ritorno alla cose semplici, ma fatte bene. Nei periodi di recessione la gente non rinuncia a uscire a mangiare, magari lo fa meno, ma va dove può spendere il giusto, o meno. La pizza è l’ideale, è uno di quei prodotti che funzionano sempre. La gente ha bisogno di sentire quelle cose che ci hanno accompagnato nell’infanzia, ma preparate bene, che danno la tranquillità di casa: credo che questo sia il futuro prossimo della ristorazione, sentirsi safe da tutti i punti di vista, anche quando vai a mangiare.
Che consiglio darebbe a una giovane donna con tante idee che vorrebbe fare il suo lavoro e magari non ha il coraggio di lanciarsi?
Se hai paura e non hai coraggio, non inizierai mai: spesso noi donne ci facciamo tanti problemi, si trovano poche figure femminili in questo mestiere, è stato sempre quasi prettamente maschile, e farsi rispettare in un mondo fatto al 99% da uomini non è facile. Io ho iniziato a 32 anni dal nulla, ma non esiste il dire "Non ce la faccio". Ho imparato lavorandoci: nella prima società sono entrata chiedendo un prestito alla banca, non ho mai domandato nulla ai miei. Ma quello che guadagnavo da una società lo reinvestivo per aprirne un’altra. Ho iniziato senza niente, da zero. Credo che una donna possa fare anche meglio di tanti uomini per gestire determinati aspetti, perché ha caratteristiche che gli uomini non hanno. Il mio consiglio è dire alle donne di avere coraggio e di buttarsi: io ho lasciato un lavoro sicuro a tempo indeterminato, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di fare qualcosa di mio, ma ho anche rinunciato a tanto: non andavo in vacanza, lavoravo e basta. Devi essere disposta a buttarti e a fare sacrifici, disposta anche a sbagliare, perché pure quello fa parte di un successo. Poi si trova il tempo di fare tutto, senza rinunciare a nulla, questo l’ho imparato.
Quale sarà il prossimo progetto imprenditoriale: ci anticipa qualcosa?
Stiamo lavorando al 2021: abbiamo capito che Gelsomina ha del potenziale, sto lavorando al terzo punto vendita. Resteremo tranquilli per un po’, per vedere cosa succederà nei prossimi mesi. Nel 2021 svilupperemo anche Crocca, un format di pizzeria nato per essere replicato. Oggi come oggi non abbiamo in cantiere nulla di nuovo, però se troviamo delle location, o se vediamo qualcosa facendo ricerca, e magari ci ragioniamo e ci lavoriamo… Non escludo nulla! L’anno scorso Gelsomina è nata così, nel giro di tre mesi, subito dopo abbiamo aperto Giolina, dopo altri tre mesi Locanda Carmelina, dalla cui società siamo poi usciti. I diversi brand nascono perché dopo un po’ mi stanco e ho bisogno di fare altro. Spesso abbiamo aperto in contemporanea più locali, anche con gli imbianchini: sì, siamo dei pazzi (ride, ndr), ma questo è il bello del mio lavoro, intenso e dinamico.