Origini italiane, residenza danese e dna mediterraneo. Valerio Serino e Lucia De Luca sono i giovani fondatori di Tèrra, un ristorante fine dining a Copenaghen, che ha conquistato l’importante riconoscimento sostenibile della Guida Michelin: la stella verde. Lui in cucina e lei in sala, sono una coppia nella vita e nel lavoro, e incarnano quanto di più contemporaneo ci possa essere oggi: usano tecniche dal mondo, si lasciano influenzare dai viaggi e condividono i medesimi intenti “green” non solo in cucina, ma sul piano esistenziale.
Propongono una cucina no waste, all’insegna dello spreco zero, che non dimentica l'approccio culturale italiano. Un'attitudine, quella per la gastronomia, nata dopo percorsi in altri ambiti professionali, e una scelta che li ha portati a dedicarsi con consapevolezza al cibo. Valerio era un dipendente di una compagnia aerea, mentre Lucia lavorava nel mondo del design e dall'architettura - "sono andata a Copenaghen per frequentare un master sull'architettura del paesaggio", racconta.
Il loro punto di vista, di italiani in Danimarca da oltre dieci anni, è molto interessante per riflettere con lucidità su quanto abbiamo e su quanto potremmo fare ancora nel Belpaese. La Danimarca più sostenibile? “Noi italiani lo siamo da sempre, ma non lo sappiamo e non lo valorizziamo”, rispondono. Li abbiamo intervistati in occasione di Identità Golose 2022, dove hanno tenuto un intervento che li ha fatti conoscere al pubblico italiano.
Ecco che cosa hanno raccontato Valerio Serino e Lucia De Luca a Fine Dining Lovers.
Italiani a Copenaghen: come è stato introdursi nel contesto danese della New Nordic Cuisine?
Non è stato facile: ci sono tante problematiche legate al fatto di essere stranieri in terra straniera, a partire dalla lingua e dalla cultura di appartenenza diverse. Noi siamo molto più affini ai nordafricani che ai nordeuropei, anche nel modo di concepire la vita e celebrare il cibo. Per noi, per esempio, il cibo è vita, mentre nei Paesi nordici non lo è, o meglio, lo sta diventando, perché negli ultimi 10 anni c’è stato un grande cambiamento. Per noi il cibo è cultura, è tradizione, è memoria dei piatti poveri. Noi non facciamo altro che riscoprire ciò che si faceva nel passato: per noi guardare al futuro significa anche questo.
La vostra è una cucina a zero scarti: è questo il futuro della gastronomia?
Per noi è un credo, un modo di essere tutti i giorni nella vita, non solo in cucina. Il nostro è un approccio etico, bisogna essere coscienti di ciò che si compra per preservare e non sprecare: è più importante saper selezionare, perché riesci già a capire - a seconda dell’alimento - dove puoi arrivare e quanti scarti puoi produrre. A noi, infatti, piace molto giocare con ingredienti poveri, perché rappresentano la base della nostra cultura. Questo, però, è un approccio che abbiamo appreso ed ereditato dalla nostra cultura italiana, più che dalla “tendenza” della New Nordic Cuisine. Le nostre nonne ci hanno insegnato questo. A noi dispiace che si parli molto di cucina sostenibile fuori dal nostro Paese: la verità è che noi italiani siamo sempre stati sostenibili, ma non ce ne rendiamo conto, perché in genere ci accontentiamo di poco. Dobbiamo essere più coscienti di quello che abbiamo, di quello che abbiamo fatto e di quello che potremmo invece esternare fuori dalla Penisola. Gli altri sono bravi a brandizzare, a differenza nostra.
Qual è il principale pregiudizio che si ha nei confronti della cucina zero scarti?
Che la cucina italiana non possa essere una New Italian Cuisine. Ed è quello che noi stiamo facendo: stiamo cercando di rivoluzionare il concetto di cucina italiana, in termini di stereotipi (niente pizza o pasta), perché vogliamo dare una nuova linfa e freschezza alla nostra cultura gastronomica, attraverso il gusto. Dobbiamo preservare il nostro sapere, non ci dobbiamo fermare, altrimenti rimarremo sempre fermi e tutti diranno che siamo un Paese che non riesce a evolvere. Siamo arrivati al momento della “nuova cucina italiana” e dobbiamo comunicarla per quello che è. Solo avendolo fatto in casa potremmo comunicarlo e farlo recepire all’esterno. Noi serviamo della pasta fresca di ottima qualità, ma solo perché siamo nati come pastificio (e ancora lo abbiamo).
A proposito, raccontateci qualcosa del vostro pastificio a Copenaghen: funziona come format?
Si tratta di un laboratorio con cucina a vista, ci si può sedere e gustare la pasta appena cucinata: è una sorta di pasta bar, dove puoi fermarti a mangiare, oppure puoi prendere un piatto di pasta già pronto come take-away, oppure ancora puoi comprare la pasta fresca da preparare a casa. Dopo dieci anni il format funziona, ma all’inizio non è stato facile, perché il danese medio non è abituato al cibo di qualità: mangiano per nutrirsi e per avere una sensazione di pienezza, ma noi stiamo cercando di diffondere il concetto che la quantità non fa la qualità e che bisogna saper scegliere. Noi vendiamo un piatto di pasta a circa 120 corone (16 euro), mentre altri lo vendono a 50 corone (circa 6 euro, ndr), quindi all’inizio abbiamo dovuto lavorare su questo aspetto con i clienti: far comprendere la qualità, appunto. Un’altra difficoltà iniziale è stata trasmettere il concetto di pasta al dente, che per molti era cruda: abbiamo dovuto educare e accettare molte critiche per diverso tempo, ma non siamo scesi a compromessi. E questa è stata la nostra forza, a dispetto di quanti ci dicevano di mollare e lasciare perdere. Sarebbe stato più facile, noi siamo orgogliosi di essere italiani: perché dobbiamo improvvisamente cambiare e sminuire la nostra cultura?
Ma perché siete andati all'estero?
Non perché non sapevamo vivere in Italia: siamo andati all’estero, alla ricerca di nuove opportunità e nuovi orizzonti, ma con la consapevolezza di tutto quello che c’è in Italia. Mai denigrando, mai dicendo in Italia non funziona niente. La domanda, poi, è: quanto, ognuno di noi, nel suo piccolo, si adopera per far funzionare le cose?
Come viene percepito il vostro ristorante Tèrra dai danesi: lo associano a un indirizzo italiano?
Abbiamo tolto appositamente la parola “italiano” dall’insegna, perché non è certo l’indirizzo dove vai per mangiare la pizza o qualche altro stereotipo gastronomico legato al nostro Paese. Noi usiamo prodotti danesi, come i pomodori locali, con l’approccio nostro, e con una filosofia italiana contemporanea. Diciamo che il danese ha il preconcetto che deve pagare poco un ristorante italiano. Il problema, quindi, si presenta nel momento in cui ti posizioni come un fine dining. Prima di ricevere il riconoscimento della stella verde da parte della Guida Michelin, avevamo difficoltà a vendere il nostro menu: siamo arrivati a dover abbassare il prezzo del percorso a 55 euro, con il 25% di iva (7 portate). Ma se pensiamo che un caffè costa 5 euro… in proporzione è pochissimo. Questo accadeva prima della stella verde. Il danese non accetta un ristorante che fa cucina italiana moderna, dunque abbiamo preferito definirci un ristorante di cucina creativa.
Perché accade questo?
Quello che stiamo facendo noi in Danimarca, in realtà, è quello che fanno tanti chef in Italia: sono tutti giovani che stanno rinnovando la tradizione. Il problema è che, se noi lo facciamo in Danimarca, veniamo intesi come pasta, pizza e tradizione. In realtà, questo accade perché abbiamo sbagliato noi: in Danimarca invitano i giornalisti italiani per andare a provare i loro ristoranti, mai da noi, per esempio.
Lucia ha studiato Architettura del paesaggio: quanto è servito per l’approccio green che avete in cucina?
Tantissimo, perché quello che noi facciamo è semplicemente il riflesso di quello in cui crediamo. Se una persona ha dentro l’attenzione e il rispetto della natura, può declinare la sua attitudine nella realizzazione di spazi urbani, ma anche in altre maniere. Noi abbiamo deciso di farlo con il cibo, perché con il food è più facile raggiungere le persone. A volte, come architetto, mi sentivo dire “piazza un po’ di verde là, ché fa figo”. Ma non funziona così: il verde serve per l’ecosistema, per la natura, per il mondo. Quindi, a un certo punto, ho capito che bisognava sensibilizzare di più le persone, essere in grado di farlo in un’altra maniera. E cosa meglio del cibo? Ho unito la mia filosofia a quella di Valerio e ci siamo trovati a condividere una comunione di intenti che ci porta a essere quello che siamo oggi.
Danimarca vs Italia: secondo voi, in tema di sostenibilità, a che punto siamo?
Quanto la Danimarca ha preso da altri Paesi? È vero che se vai al supermercato trovi i prodotti biologici a prezzi più alti, dunque mangiare bio diventa una scelta, ma fino al 2015 la raccolta differenziata non c’era a Copenaghen, mentre da noi in Italia già c’era. Da una nazione che vuole diventare totalmente green e zero emissioni entro il 2030 non te lo aspetti. Noi facciamo una cucina che è zero sprechi e il danese medio ha difficoltà appunto a capire cosa significa “green”, cosa significa riutilizzare gli scarti. La reazione media di un danese è: mi state dando della spazzatura? A un italiano non verrebbe mai in mente di pensarlo, ecco perché pensiamo che dovremmo valorizzare la nostra cultura e la nostra conoscenza. Bisogna sempre ricordarsi questo: stiamo veramente parlando di una nazione che fa o che è? Noi italiani abbiamo poca teoria, ma tanta pratica, al contrario della Danimarca, che ha vissuto anche un processo di brandizzazione istituzionale, per cui serve etichettare tutto.
Che significato ha avuto per voi la stella verde: ora puntate anche a quella “rossa”?
Il massimo riconoscimento che potevamo ricevere era proprio la stella verde: ci speravamo. La cucina del futuro secondo noi sarà la stella verde, dunque questo premio per noi è stato il riconoscimento per eccellenza.
Quali sono i tre iconici piatti da assaggiare, per conoscere Tèrra?
Sperimentando, facendo cucina creativa, si tende sempre a dire che i migliori sono gli ultimi. Senza subbio il nostro Assoluto di pomodoro, fatto con un pomodoro verde danese, il Sedano Rapa e cozze, che abbiamo presentato sul palco di Identità Golose, ma anche il Calamaro, limone candito e mandorla, ossia un calamaro marinato con sale e zucchero, servito con limone candito, mandorla emulsionata con olio d’arancio, un piatto che tira fuori le mie radici siciliane.
Progetti futuri?
Tra i nostri progetti futuri c’è ritornare in Italia e poter insegnare quello che abbiamo vissuto noi, magari ai ragazzi più giovani… C’è ancora un po' di lavoro da fare, ma ci stiamo lavorando: le radici di casa chiamano.
Tutte le foto Brambilla Serrani