Figlio di un ferroviere e di una casalinga, lo chef Luca Fantin ha mosso i primi passi in cucina nel solco della più classica tradizione gastronomica italiana: prima con gli insegnamenti di nonna Anita, poi con l’iscrizione all’Istituto Alberghiero di Treviso fino alle esperienze con i più grandi, tra cui lo chef tristellato Heinz Beck, con cui si prepara per nuovi orizzonti.
Ma il destino ha per lui ben altri piani: ad appena 29 anni, nel 2009 i dirigenti di Bulgari Hotel lo vogliono in Giappone alla guida del ristorante nella Ginza Tower di Tokyo, dove è l’unico chef italiano a poter vantare una stella Michelin.
Lo abbiamo incontriato a Care’s – the Ethical Chef Days, dove ha portato con se un ingrediente che rappresenta bene la sua nuova filosofia di cucina: la bottarga.
Non tutti gli chef di origine italiana, trapiantati all’estero, riescono a mantenere identità e a integrarsi bene nel nuovo paese. Ci può raccontare com’è andato questo percorso?
Dal mio arrivo a Tokyo sono un po’ cambiato. All’inizio, quando ho accettato l’incarico, vivevo con l’ossessione dei prodotti: da un lato ero cresciuto credendo all’importanza del chilometro zero, dall’altra pensavo che si potesse fare cucina italiana solo con prodotti italiani. Usare prodotti locali o italiani? Con il tempo ho capito che si deve essere elastici e trovare un giusto compromesso. Così ho fatto.
Il risultato è un mix di Italia e Giappone: facci qualche esempio per capire meglio.
Come detto all’inizio facevo arrivare molti ingredienti dall’Italia, poi mi sono chiesto: che senso ha importare il maialino di cinta senese a Tokyo?
Così ho cominciato a concentrarmi meglio sui mercati e produttori locali. Ho scoperto un mondo affasciante e un livello di qualità molto alto. Ora posso contare su buone produzioni di carciofi, puntarelle e un radicchio simile a quello di Treviso. I sapori sono puri, non c’è inquinamento e le leggere differenze rispetto ai nostri ortaggi non sono un difetto, ma anzi uno stimolo per trovare nuovi abbinamenti. Sul monte Fuji ho persino scoperto una varietà di funghi molto simili ai porcini! Le uniche eccezioni ai prodotti locali sono il riso Carnaroli, l’olio extravergine di oliva e il Grana Padano: quelli sono inimitabili e continuo a importarli dall’Italia. In più, ho cominciato a produrre in casa anche molti ingredienti italiani: un esempio è proprio la bottarga di muggine – salata pochissimo e lasciata marinare in un brodo di prosciutto - che ho portato a Care’s.
Dopo 7 anni, puoi dire quali elementi hanno in comune le due cucine, giapponese e italiana?
Quattro fasce climatiche e quattro stagioni, come in Italia, attenzione alla freschezza degli ingredienti e alla qualità: ecco gli elementi in comune. Tenete conto che il Giappone vanta il servizio postale più efficiente al mondo e questo è fondamentale per garantire la freschezza degli ingredienti: dal mercato mi mandano una foto con whatsapp, se mi interessa quel tipo di pesce lo ordino e arriva nella mia cucina dopo poche ore.
C’è qualche tecnica particolare che hai imparato a Tokyo?
A differenza del gusto occidentale, in Giappone il pesce è consumato con la polpa soda e tenace, invece che tenera e masticabile. Per questo ho imparato la tecnica dell’ikejime, un’antica pratica per lavorare il pesce in modo rispettoso e poco cruento che preserva al massimo qualità e consistenza delle carni. Consiste nell’infilare un ago di acciaio esattamente tra i due occhi nel midollo spinale attraverso il cervello per provocare l’immediata morte cerebrale. E’ un metodo che stanno iniziando a usare anche in altre parti del mondo.
Qual è invece l’approccio alla carne?
Bisogna dire che in Giappone si è molto moderati e attenti alla salute, motivo per cui l’obesità è rara. Non ci sono allevamenti intensivi, quindi non si verifica lo stesso processo di “demonizzazione” della carne. Non esiste nemmeno il consumo della carne cruda, ma ho imparato ad apprezzare una razza di vacca rossa di ottima qualità, si chiama aka – ushi e la uso abitualmente in cucina.