Due stelle Michelin e un grande amore per il “suo” lago, quello di Mergozzo. Marco Sacco, chef patron del Piccolo Lago di Verbania, è una delle anime creative dell’alta cucina italiana. Nella sua cucina valorizza i prodotti della Val d'Ossola, come il Bettelmatt, formaggio d’alpeggio dal gusto deciso e floreale, e il pesce di lago. Persona etica ancor prima che cuoco, ha fondato l’Associazione Gente di Lago e di Fiume per proteggere le acque interne territoriali.
La Trota
Come nasce la sua passione per la cucina?
Avevo nove anni. A quei tempi, il proprietario del Piccolo Lago di Verbania era il mio papà. Un giorno mi prese in braccio in cucina e io, dall’alto, vidi sui fornelli enormi pentole colme di salsa di pomodoro e di ragù, l’ossobuco che sobbolliva e la lingua in salsa verde. Lo abbracciai forte e gli dissi: “Papà anche io farò il cuoco”. Le passioni si sentono potenti fin da piccoli.
Due stelle Michelin. Eppure in pochi sanno che in passato è stato un grande sportivo.
Sì, dai 9 anni in poi la passione per la cucina è stata messa in un cassetto. A 12 anni l'avevo dimenticata. Iniziai a praticare il wind surf, sport allora quasi sconosciuto in Italia. Quegli anni a "contatto con l'acqua" hanno rafforzato ancora di più il mio amore per il lago. Diventai istruttore giovanissimo. È stato il mio primo business. Entrai in nazionale e feci 13 Campionati italiani, 4 europei e un Campionato del mondo.
Come è tornata la passione per la cucina?
All’improvviso. A 23 anni andai di nuovo da miopadre e gli dissi: “Farò lo chef stellato”. Mi rispose. “Ti do 3 anni per capire cosa significa”. Iniziai a girare per la Francia, soprattutto al sud, sperimentando la cucina di pesce e di verdure e imparando tutte le basi tecniche della cucina d’Oltralpe.
Chi è stato il suo mentore?
Un giorno suonai al ristorante di Roger Vergé. Gli dissi schiettamente e senza paura: “Sono un giovane cuoco italiano che vuole capire cosa sono le stelle”. Ne rimase stupito. Mi prese sotto la sua ala. Ho lavorato nelle sue cucine per 3 anni.
Qual è stata la sua prima occupazione?
Aprivo le uova. Per ore ed ore. Con un piccolo strumento ad hoc rompevo con precisione la sommità del guscio e separavo albume e tuorlo. Non sapevo ancora che quell’attività così semplice sarebbe stata, un domani, l’ispirazione di uno dei miei piatti più famosi: la mia Carbonara au koque.
Qual è stato l’insegnamento più importante della sua esperienza francese?
Ho capito cosa significasse una brigata, la gerarchia, la disciplina. Ero abituato alla cucina di mio papà dove lavoravano tre persone, compreso lui. Dopo l'esperienza francese, a 25 anni sono tornato a casa per prendere le redini del Piccolo Lago. Purtroppo poco dopo mio padre è venuto a mancare e a me è tremata la terra sotto i piedi. Non sentivo più stimoli, mi stavo "spegnendo". E’ stato solo grazie all’amore di colei che oggi è mia moglie, Raffaella, che sono arrivato dove sono. Lei mi ha dato la forza di continuare a lottare ed è stato bello scoprire che il suo sogno era uguale al mio.
Il Ristorante Piccolo Lago di Verbania
Quali sono state le innovazioni del “nuovo” Piccolo Lago?
Nel 2000 ho tolto completamente la Carta classica con antipasti, primi e secondi per creare 2 menu, uno tradizionale e uno creativo. Portavo il cannellone classico, oppure rivisitato nella versione contemporanea, senza besciamella e pomodoro, ma con una salsa al nero di seppia. Al posto del ripieno di carne, una farcia di Mascarpa, un prodotto tipico locale. Ho iniziato a guardare ai prodotti del territorio elaborandoli con la grazia dell’estetica imparata in Francia.
Ha continuato a viaggiare?
Sempre. In Oriente, soprattutto. Thailandia, Vietnam, Malesia e Giappone in primis. In quei Paesi ho capito che un fritto poteva essere messo in brodo e diventare una zuppa. Ho capito che nella cucina non c’erano limiti.
Quando sono arrivate le stelle?
La prima nel 2003 e la successiva nel 2007. Dopo tanto lavoro, devo dire che le soddisfazioni sono arrivate velocemente, una dopo l’altra. Michelin aveva capito il mio lavoro.
Oggi cos’è la cucina del Piccolo Lago?
Oggi posso dire con soddisfazione che è un’esperienza a tutto tondo: non è solo cucina, ma territorio, accoglienza, famiglia. Un luogo riconoscibile e identitario. La filosofia è partire dal territorio per contaminarlo con il mondo. Il massimo esempio è il mio piatto “Lumaca e lumaca” che unisce in una portata le lumache di terra ossolana alle lumachine di mare orientale. Oriente e Occidente che si avvicinano, mantenendo ciascuno la sua identità.
Il suo prodotto preferito del territorio?
Il Bettelmatt, un formaggio prodotto in soli 6 alpeggi tra i 1800 ai 2200 metri sopra Domodossola. La produzione è di 7000 forme all’anno. Le mucche si nutrono di un’erba particolarissima, che si trova solo in quella zona, che si chiama “mottolina”: conferisce al latte, e quindi al formaggio, un sapore estremamente floreale.
La Cacio e pepe di Lago
Cosa cucina con questo prodotto?
Un flan, di scuola piemontese, abbinato ai mirtilli di montagna e alle pere in mostarda. Un perfetto equilibrio tra dolcezza e acidità.
La vista dal tuo ristorante è mozzafiato. Cos’è per lei il lago?
Il lago è la mia vita. Ho imparato prima a nuotare che a camminare. L’acqua stessa è la vita. Il lago è un microcosmo, qualcosa di chiuso, ma ha sempre un fiume che arriva al mare. E’ autonomo e indipendente ma, allo stesso tempo, è aperto al mondo. Come si fa a non amarlo?
Quanto è importante il pesce di lago nella sua cucina?
Fondamentale, non solo per il suo gusto, ma perché è il pretesto per parlare di un problema etico reale: la necessaria tutela delle acque territoriali interne e della gente che vive e lavora a contatto con quelle acque. Ecco perché ho fondato l’Associazione Gente di Lago e di Fiume.
Il suo piatto icona col pesce di lago?
Il Lingotto del Mergozzo. È a base di marmorata, un tipo di trota di lago, affumicata al ginepro, abbinata a polvere di aceto balsamico, gel di lamponi. Il nome “lingotto” richiama la preziosità di questi ingredienti semplici.
Il Lingotto del Mergozzo
Il suo pesce preferito?
L'anguilla. Nasce in punto solo, il Mar dei Sargassi, ma poi "conquista" il mondo. In ogni Paese in cui vado assaggio l’anguilla per capire lo stile di cucina specifico di quel territorio. Nella laguna veneziana si fanno affumicate, in Oriente sono piccole e saltate al wok con aceto di soia, in Francia sono bollite e sgrassate, condite con un goccio di limone. L'anguilla racconta la cultura gastronomica di un luogo.
Qual è il suo piatto che unisce passato e presente?
La Carbonara au koque. Come vi raccontavo, da giovane passavo intere giornate da Roger Vergé ad aprire uova, separando con precisione albume e tuorlo. Lo chef, un giorno, mi regalò, quell'attrezzino con cui rompevo il guscio e lo ritrovai in un cassetto molti anni dopo. Da lì, l'illuminazione: in un secondo è nata la Carbonara au koque. Questo piatto è come l'Italia, buona e divertente. Al tavolo, infatti, arriva un Tagliolino piemontese saltato con il prosciutto crudo ossolano al posto del guanciale. A fianco viene portato un guscio d’uovo ripieno di salsa alla carbonara, che l’sopite versa da sé sulla pasta. In cucina si fa la cottura, in sala la mantecatura.
C’è speranza per l’Italia del gusto?
Sì, perché, anche se viaggi molto, l’Italia è come una calmita, ti riporta sempre a casa. Noi italiani dobbiamo tornare ad essere semplici, nella vita così come in cucina.