"In Italia mi sono sentito subito a casa": risponde così, Mauricio Zillo, quando gli si chiede il perché dopo un lungo peregrinare in giro per il mondo abbia deciso di venire e rimanere in Italia. Nato in Brasile, il giovane chef del Rebelot Del Pont vanta un curriculum dai nomi importanti: Santi Santamaria, Juan Mari Arzak, Alex Atala.
Tradizione e avanguardia mescolate insieme, disciplina dal suo percorso francese e infine l'Italia, quella rivisitata di Matias Perdomo e de Al Pont de Ferr sui Navigli milanesi. Qui prima, e al Rebelot poi, Mauricio abbandona gli schemi dei ristoranti più strutturati e, come dichiara in questa intervista, impara a ragionare con la propria testa.
Che cucina si trova al Rebelot?
Difficile definire il Rebelot: posso dire che la cucina è semplice e i prodotti di stagione, porzioni un po' più piccole di quelle di degustazione, adatte per l'aperitivo, anche se sette piattini sono sufficienti per cenare. All'inizio i piatti erano meno strutturati, poi dopo qualche mese di rodaggio, grazie anche al dialogo con i fornitori e con i clienti, siamo riusciti a dare più attenzione e cura al piatto.
Da Al Pont de Ferr al Rebelot Del Pont: com'è avvenuto il passaggio?
Ero Al Pont de Ferr in cucina con Matias già da due anni. Poi tre settimane prima di aprire il Rebelot Matias mi ha chiesto di dirigere la cucina del nuovo locale, dandomi carta bianca. Ero ovviamente un po' nervoso perché era la mia prima esperienza da solo, anche se io e Matias ci siamo sempre confrontati. All'inizio doveva essere un tapas bar all'italiana, poi piano piano abbiamo acquisito sempre di più un'identità nostra. Dall'apertura abbiamo fatto più di 200 piatti diversi, cambiamo gli ingredienti spessissimo; questo è anche un modo per divertirsi: se lavori 16 ore al giorno e non ti diverti, questa vita non ha senso.
Dal Brasile a Milano: come mai l'Italia?
I miei nonni sono veneti, ma non parlavo l'italiano ed ero venuto qui solo una volta a 17 anni. Avevo voglia di conoscere le cucine più importanti del mondo e quella italiana era ovviamente sulla lista. Dopo la morte di Santi Santamaria, nel 2011, non aveva più senso rimanere a Dubai: tramite un'amica giornalista ho scoperto che uno chef uruguaiano, che stava facendo grandi cose a Milano, cercava personale. E' stato allora che mi sono detto: "Proviamo con l'Italia". Alla fine mi sono innamorato della gente, del personale e del luogo; la mia permanenza Al Pont de Ferr doveva essere di soli tre mesi - dopo Matias sarei dovuto andare da
Cosa le hanno lasciato le sue precedenti esperienze? Si pensi a quella con Santamaria e Atala.
In Francia ho imparato la disciplina: quando ho lavorato lì ero giovane e questo mi ha formato moltissimo. In Brasile, invece, ho aperto la mente con Atala: al D.O.M. ho usato prodotti del mio paese che neanche conoscevo. Con Arzak in Spagna sono cresciuto molto, e poi sono andato con Santi, una cucina tradizionale e piena di disciplina.
E il rapporto con Matias Perdomo?
Matias mi ha fatto vedere un altro mondo ancora, mi ha insegnato a non avere paura. Siamo due fratelli e lavoriamo insieme, con la difficoltà e la voglia di fare cose diverse. Scambiamo le idee ma facciamo due cucine completamente differenti, e questo è bellissimo.
Ci sono punti in comune fra Italia e Brasile?
L'Italia è il Brasile d'Europa, ed è anche il luogo dove mi sento più a casa. Ci sono le stesse caratteristiche fra il Nord e il Sud dei due paesi e alla gente piace vivere la vita. Ci sono anche gli stessi lati negativi: ci lamentiamo tanto delle cose ma non facciamo nulla per cambiarle.
Uno chef italiano che rappresenta l'Italia in questo momento?
Nino di Costanzo.
Un ristorante che l'ha colpita negli ultimi tempi?
L'El Coq di Lorenzo Cogo.