Nico de Soto è famoso per essere un bartender nomade: si dice infatti sia il bartender con più viaggi fatti in giro per il mondo durante l’arco di un anno. Nel 2018 ha visitato tutti i cocktail bar presenti nella classifica dei World's 50 Best Bars e vive non solo in due città diverse (Parigi e New York), ma in due diversi continenti.
Un piccolo cocktail bar a New York, il Mace, inserito nella 50 Best da sempre, uno, Danico nella sua natìa Parigi e l’ultimo arrivato, Kaido, a Miami sono le sue avventure imprenditoriali che potremmo definire verie e propri esperimenti di sapori, trend e modernità. Esperimenti decisamente ben riusciti.
Qualche tempo fa siamo stati alla sua guest night al The Court, Roma, per provare alcune delle sue creazioni. Tra uno smaiquiri e un altro (gli smaiquiri di Nico sono il suo biglietto da visita ospitale: shot di un intero daiquiri per rendere la serata decisamente frizzante), abbiamo parlato della sua storia, di cosa significa per lui mixology e dei suoi progetti, in continua evoluzione.
Foto courtesy of Nico de Soto
Nico, ci può raccontare come è diventato un bartender?
Da sempre amo viaggiare. E mi sono avvicinato a questo mondo abbastanza tardi, a 27 anni, in Australia. Ho trovato lavoro a Melbourne, dove ho appreso alcune tecniche e mi sono appassionato sempre di più a questo mestiere. Da lì sono tornato a Parigi dove sono diventato bar manager al Mama Shelter, prima di abbracciare la famiglia di Experimental Cocktail Club e di Curio Parlor (chiuso definitivamente). Per l’Experimental ho lavorato anche a New York e Londra, tra i migliori bar del mondo. Nel 2015 ho aperto il mio primo cocktail bar, Mace, nell’East Village di New York, che è entrato da subito nella World’s 50 Best Bars.
Il viaggio è alla base del suo lavoro e dei suoi menu. Quanto è importante per il suo processo creativo? Certo, io amo viaggiare. E mi piace farlo anche quando sono fisso in un posto: per esempio, quando ero in Australia mi sono detto che ero vicino ad altre città oltre a quella in cui vivevo e ad altri paesi. Quindi perché non andare e conoscere? Sono fermamente convinto che la chiave di tutto sia la curiosità. Viaggiare ti fa provare nuovi sapori e scoprire nuove persone che possono ispirarti. A volte sono cose buone, altre meno, ma il punto sta nel fatto che più sei curioso in questo mestiere, più alimenterai la tua creatività. Assaggi nuovi sapori, vedi diversi stili. Solo così ho potuto creare il mio concetto di mixology.
Quindi cosa sta alla base della sua mixology?
Il sapore. Il sapore è la cosa più importante di tutte. I drink che creo devono essere ricchi di sapori: la mia idea è sempre stata di fare qualcosa di supercool, nell’aspetto e nel gusto. Continui a provare, sbagliare e riprovare fino a che non arriva il sapore che volevi. Mi piace il fatto di vivere prima a fondo il luogo in cui sto aprendo il mio bar per scoprirlo, analizzarlo, unire la cultura del posto ai sapori. Le prime drink list erano basate sui classici perché, lo ammetto, non ero ancora in grado di sviluppare i miei drink. I classici sono importanti da saper fare alla perfezione prima di addentrarti nelle tue ricette. Piano piano ho scoperto il mio stile, fatto di cocktail senza garnish, minimal nell’aspetto, ma complessi e pieni nei sapori.
Cosa cambia da uno dei suoi bar a un altro?
I miei cocktail bar sono caratterizzati dal mio stile di fare da bere e non solo. Mace e Danico sono uguali, hanno la stessa importanza per me e il concetto alla base è lo stesso: minimalismo ricco di sapori, spesso inaspettati ma netti. Mace è decisamente incentrato sulle spezie: ogni drink è il nome di una spezia, per dire quanto importante sia il sapore per me. Cambia un poco Kaido, a Miami, dove è nata una collaborazione con uno chef e in quel caso lo stile si sposta verso uno smaccatamente asiatico. Di base non mi piace avere dei capi, mi piace fare le cose di testa mia. Anche se, ovviamente, ho dei soci che mi sostengono. Un’altra cosa che mi sta a cuore è l’ospitalità: penso che quando paghi un cocktail deve essere perfetto il drink ma anche il modo in cui vieni trattato. Questo ti permette di creare non solo qualità, ma network interessantissimi che portano a vivere il bar in maniera fantastica.
Danico è il bar che ha aperto nella sua Parigi. Ci racconta come sta cambiando la mixology nella sua città natale?
In effetti non se ne parla tantissimo, ma a Parigi la creatività nella mixology è molta e di altissima qualità. Ci sono un’ottantina di cocktail bar e parecchia sperimentazione. Tutti conoscono Remy Savage de Le Syndacat, ma c’è molto altro. Un discorso che va oltre le classifiche e vede la comunità di bartender parigina sempre più unita, che non si stanca e non si annoia e che, da una decina d’anni ha raccolto i frutti dei molti viaggi e bar shows in giro per il mondo. Mi piace molto lavorare a Parigi, tanto che stiamo cercando una seconda location. Covid permettendo, naturalmente.
Da bartender viaggiatore, quanto ha inciso questa pandemia sui cocktail bar del mondo? Quali possono essere i trend del futuro anche considerando la pandemia?
C’è paura e confusione. Il Covid ha distrutto investimenti, interi business e i bar sono dei business molto fragili in questo momento. I trend seguono il momento di incertezza: può andare avanti un discorso sulla fermentazione, oppure quello su drink low ABV. Singapore potrebbe essere un nuovo faro, sta esplodendo la mixology di qualità da quelle parti. Ma la verità è che non si può sapere, è tutto abbastanza un’incognita.
Per chiudere: qual è la sua creazione preferita?
Il Clarified Milk Punch. Mi piace perché è un drink molto complesso fatto di un lungo processo di infusione e filtraggi. La texture è davvero unica, i livelli di sapore sono molti, diversi e riconoscibili.