Quando andavano di moda i fuochi a vista, hanno creato una cucina nascosta, visibile solo da uno spioncino. Quando il culto dello chef e della sua persona cresceva sempre più, hanno scommesso su un nome, Contraste, che è diventato un vero e proprio marchio di stile. Riconoscibile e riconducibile a un pensiero, e non a una sola figura accentratrice. Le cose si fanno in tre in casa Perdomo-Piras-Press, e forse questo è il segreto di un'energia creativa fuori dagli schemi, capace di cogliere la sensibilità contemporanea, ma con un passo sempre avanti.
È il passo dell'avanguardia, di chi sa cogliere le reali necessità dell'oggi con uno sguardo al domani, ma anche il passo di chi rifiuta qualsivoglia tipo di etichetta, non mettendo limiti alla libertà e alla capacità di immaginazione e di realizzazione. Il passo di chi comprende che forse è giunto il tempo di diversificare la proposta, al punto di non scommettere più solo sul ristorante gourmet, ma di sfruttare la tecnica, la conoscenza, e l'esperienza ventennale, per decentralizzare l'attività e metterla al servizio dei più. Con nuovi format accessibili, ma non meno identificativi della filosofia Contraste.
“Durante il lockdown ci siamo concentrati sullo studio dei nostri nuovi quattro format”, spiega Thomas Piras. “Abbiamo risposto a una domanda: come possiamo rendere contenti i nostri ospiti senza rovinare quello che abbiamo fatto per cinque anni? Differenziando il nostro know-how, la nostra voglia di fare qualità. Così, abbiamo sfruttato un laboratorio di produzione che abbiamo dalla fine del 2017, sempre a Milano, ma in zona Lambrate, che ci ha permesso di sperimentare e fare le prove”, prosegue.
Format che al momento sono in cantiere, e che partiranno verosimilmente a settembre, una volta ultimati i lavori. “Non c'è fretta ora, ovviamente, stiamo scaldando di nuovo i motori, sperando di trovare la Milano che ci ha lasciato prima del lockdown”, aggiunge Matias Perdomo. “Vogliamo ripartire il primo settembre con lo stesso entusiasmo che abbiamo avuto il primo settembre 2015, quando abbiamo aperto Contraste”, continua Piras.
Tutti i nuovi progetti, la non estetica dei piatti e il futuro della gastronomia: ecco cosa ci ha raccontato lo chef Matias Perdomo, padre di Contraste assieme a Thomas Piras e Simon Press.
ROC - Rosticceria Origine Contraste: ci spiega il progetto?
L'idea è quella di una rosticceria online con delivery curato da noi. In un secondo momento, il progetto si svilupperà e diventerà una rosticceria “fisica” di quartiere, uno spazio dove instaurare un rapporto diretto con gli artigiani, non per folklore, ma perché davvero ormai noi abbiamo una filiera di produttori che conosciamo personalmente. Vogliamo perciò dare la possibilità, tramite sito online, di fare la spesa, rendendo accessibili i prodotti con cui noi abbiamo a che fare ogni giorno: è un po' la condivisione del nostro lavoro. Questa è l'idea, ma la prima fase parte online: vogliamo tornare a quelli che erano i princìpi della rosticceria di una volta, però portandoli al 2.0, a quello che è diventata nel 2020. Sarà un progetto dove compri oggi e mangi domani, per cui tu fai la spesa e ti arriva il giorno dopo, non è né un take-away né un mangio-subito, ma prevede una programmazione, un'organizzazione, anche per una questione di sostenibilità e di tempistica. Il packaging è sostenibile, e anche il modo in cui arriverà a casa sarà sostenibile, con driver ad hoc. Questa attenzione all'aspetto “green” è dovuta: abbiamo pensato al packaging, per cui togliamo all'estetica per dare un po' all'etica.
Come avete impostato quindi la presentazione?
L'estetica del bello e del design c'è, ma abbiamo lavorato in maniera molto minimal, stando attenti all'aspetto sostenibile, per cui c'è una mono-vaschetta dove andrà tutto. Siamo noi che ci dobbiamo adattare al packaging, e questa mono-vaschetta ci consente di lavorare con una confezione biodegradabile, termosigillata in laboratorio, quindi non esposta alle contaminazioni. Sono aspetti di cui non puoi fare a meno, non è che vogliamo lavorare su questo come “marchio”, ma il nostro è un investimento sul tempo, su quello che è fare la spesa, in un luogo che può essere Contraste, di cui condividi la filosofia, che però può essere a portata un po' di tutti. Il fatto di arrivare con la nostra filosofia a casa della gente ci fa piacere. Poi, in una seconda fase, avrà uno sviluppo in un locale: ci sarà una vera e propria rosticceria fisica, dove andare di persona, dove volendo ti siedi e mangi, dove avremo un po' di merce in esposizione... L'idea è quella di creare un polo di movimento dove si trovano i prodotti degli stessi produttori da cui noi ci forniamo, mettiamo a disposizione tutto, facciamo anche conoscere gli artigiani, organizzando incontri con loro, sempre per stimolare la conoscenza: parlare con un produttore ti fa essere partecipe del suo progetto e dopo lo sposi anche te.
Qual è l'idea gastronomica di Roc? Come avete studiato i piatti?
Saranno concentrati su prodotto e filosofia: una vaschetta dove sarà condensato, in un'unica preparazione, tutto quello che vogliamo raccontare del prodotto, e il gusto naturalmente. Abbiamo per esempio un filetto di baccalà al pepe verde e nient'altro: non c'è il concetto di contorno né un concetto di evoluzione del piatto, ossia - per esempio - baccalà e pepe verde con salsa di pil pil. Perché quello a me dà un'emozione. È molto concentrato, perché alla fine lascia la libertà di scelta. Abbiamo discusso tanto su questo: io non propongo il piatto “Pollo con peperoni, patate e salsa alla diavola”: se a qualcuno non piacciono i peperoni, è un problema. Io invece propongo “Il pollo”, ma non ha il contorno: questo consente di essere molto più liberi al momento della scelta, e di comporre il menu a piacere. È molto contrastiano, perché è un non-menu, cioè io non do un piatto finito, ma un elemento elaborato che in quel momento trasmette qualcosa: è una vaschettina, però è concentrata tutta sul prodotto. E non c'è volutamente testo, contesto, salse, contorni: dopo, piuttosto, si può mangiare un'insalata russa o una parmigiana, o piselli al curry, ma non proponiamo per scelta un piatto composto. Questo dà quella libertà al cliente di prendere quello che vuole, e a noi ci dà la costruzione del diametro. Noi non dobbiamo impiattare, ma dobbiamo inglobare in un prodotto tutte le caratteristiche che vogliamo dare a quel prodotto.
Il concept di Roc, dunque, implica una nuova visione del lavoro dello chef.
Non c'è un impiattamento vero e proprio nella vaschetta, per cui è un uscire completamente da quello che è il nostro lavoro da cuoco: abbiamo eliminato il diametro, lasciando alla non-estetica la nuova estetica, perché in una vaschetta di pochi centimetri non ti devi immaginare il piatto, ma il prodotto. E allora entri un un mondo della non-estetica che è molto interessante secondo me.
La definizione “il mondo della non-estetica” è molto contrastiana...
Si, anche perché siamo in quella fase in cui stiamo andando a lavorare sulle non estetiche, che non per forza sono delineate da un comune denominatore che è il bello, perché il bello è dato da un insieme di persone che dicono che è bello. Magari il bello è un comune denominatore di tutti, ma ognuno può vedere il bello dove vuole, e noi stiamo cercando di tirare fuori questo.
Parliamo di Exit Pastificio Urbano, un altro format in cantiere: come è nata l'idea?
Quando ero in Uruguay lavoravo in un ristorante italiano dove si faceva solo ed esclusivamente la pasta di ogni tipo, con tutti i sughi e i condimenti. Quando sono arrivato In Italia nel 2001, io mi sono reso conto che la pasta era un elemento ingombrante nel menu degustazione (che ha iniziato a prendere piede nel 2004-5), ed è un discorso che porto avanti ancora oggi: la pasta a livello sociale e filosofico, ma anche a livello di quantità e di pesatura, in un menu degustazione - per piccolo che sia - è un elemento che distrae o richiama del tutto l'attenzione. Socialmente la pasta è l'elemento che collega il mondo con la cucina italiana, e io continuo a dire che la cucina italiana non è più cucina italiana, ma appartiene al mondo, e si traduce in domenica-famiglia-stare-intorno-alla tavola, ed è un momento molto centrato sulla pasta. Con Exit (il format già esistente, ndr) volevamo uscire dagli schemi, uscire dalla città rimanendo dentro, uscire da tutto ciò che è convenzionale e invitare a prendere del tempo per sé, ma non abbiamo volutamente inserito la pasta. Per noi dare importanza solo alla pasta, con Exit Pastificio Urbano, è come una grande sfida, anche a livello gastronomico, perché credo che nessuno abbia mai lavorato su un ristorante di pasta. Possibile che nessuno in Italia abbia investito in un format sulla pasta? È super replicabile, anche a livello internazionale e filosofico, la gente lo capisce istintivamente. Si trova in via Orti angolo via Curtatone, in una zona dove non c'è movida, ma c'è il quartiere, è molto bello.
Proporrete i classici della pasta?
Tra gli slogan di Exit Pastifico Urbano c'è: “Secondi a nessuno”. Punteremo a dare al concetto di pasta una leggerezza intesa come sì quel posto che riporta alla domenica e alla famiglia nei gusti, ma elegante: valorizziamo la pasta, dedicandole un intero ristorante. Mi sembra il minimo, ma anche una scommessa che nessuno chef ha fatto sino ad ora, tralasciando le catene. Ci sarà un collegamento da Nord a Sud, pasta secca di ogni tipo, degli artigiani da ogni dove, pasta fresca ripiena, ci sarà di tutto insomma. Sarà un concept in movimento, come Exit, poi credo che molto dipenda anche dalla clientela (così come anche al Contraste), perché il 50 per cento del successo di una serata dipende dalla predisposizione del cliente. La pasta è un concept diverso: mangi due salumi strepitosi mentre ho calato la pasta, poi, una bottiglia di vino, il carrello dei formaggi, un dolce.
Come ha impostato il concept gastronomico? Ha alleggerito i sughi della tradizione?
Io uso pochissimo burro in cucina e riesco a separare i concept, ma Contraste è un ristorante a 360 gradi, nel senso che si viene al Contraste, non da Matias Perdomo. È una ricerca continua della non comunicazione, non estetica, non uscire in sala: perché in questo momento, la negazione è la negazione di tutto quello che era evidente. Il non esserci è quello che domani ci dà la libertà. Io non voglio essere onnipresente come chef, anche se al 99 per cento delle volte ci sono, sono sempre in cucina, ma voglio che ci sia la crescita dei ragazzi in sala, non voglio che siano demotivati perché si sentono solo dei portatori di piatti. No, i miei ragazzi sono dei portatori di emozioni, i clienti li salutano chiamandoli per nome, si crea questo meccanismo che alleggerisce lo chef: il concetto è questo, trovare il punto di forza di ogni concept. Se il punto di forza è una persona, quella persona vivrà una prigione. Oggi noi abbiamo la possibilità di non esserci, siamo aperti 7 su 7, perché abbiamo 22 persone nella squadra, una proporzione di due persone per tavolo. La gente viene a vivere la propria serata e noi siamo i primi a dover uscire dalla scena, ma a mettere i clienti al centro della scena: è il concept di Exit, dove il cliente va per vivere il suo momento. Ora con la pasta è lo stesso, il cliente al centro, che ha voglia di mangiare uno o due piatti di pasta.
Cosa racconta, invece, del terzo format in cantiere, Empanadas del Flaco?
Ho la fortuna e il piacere di lavorare con Simon da 15 anni, e lui da buon argentino era da tempo che diceva che aveva il sogno di aprire un posto per le empanadas (“Il Flaco”, il magro, è il soprannome di Simon Press, ndr). Perché da noi, in Argentina e in Uruguay, equivale alla pizza. Quando sei a casa non ti ordini una pizza, ma una empanada. E allora abbiamo iniziato a pensare ai punti deboli e di forza in confronto con la pizza: non mi metterei mai a fare la pizza, è un mondo a sé, io non ne saprei molto di lievitazioni e idratazioni, è una materia molto più viva della cucina. Simon ci teneva affinché i milanesi conoscessero le tipiche empanadas: in Argentina, in genere, ti fai cinque empanadas a testa, mentre guardi la partita, per esempio. È il classico cibo da mangiare in compagnia, con la birretta. La cosa che ci ha stimolato molto di più è che noi dobbiamo imprimere in 75 grammi di impasto e ripieno la nostra filosofia: è la prima volta che andiamo a lavorare sul prodotto che non ha la manipolazione dei gesti quotidiani, né dei rapporti umani. Sarà un piccolo spazio in via San Maurilio, dove si prende e si porta via, non ci saremo noi a servire, ma ci sarà il prodotto che parlerà di noi. E vogliamo che la gente dica “Che bomba quelle empanadas!”. Abbiamo pensato a un concept che provochi nella gente questo effetto-sorpresa in 75 grammi. A me ha riportato subito in Uruguay, assaggiandola: Simon ha una sua tecnica per fare il ripieno e ho capito perché veniva sempre asciutta a me. Le empanadas verranno preparate sempre nel nostro laboratorio di 150 metri quadrati: lì verrà finito il prodotto, poi verrà rigenerato nel punto vendita, in un forno speciale.
Cioè? In che modo verranno prodotte e rigenerate le empanadas?
Abbiamo un forno a spruzzo friggitrice, ma è un forno... stiamo cercando di rigenerare nel miglior modo possibile, mantenendo una shelf life alta. Usiamo materie prime selezionate: la filosofia è uguale, conosco chi mi sta dando il prosciutto, la carne, la farina, e per 3-4 euro io non voglio sporcarmi o ingannare la mia filosofia. La sfida è imprimere in 75 grammi di prodotto e in 3-4 euro ben 25 anni di storia gastronomica. Però per noi questo è alimento di vita: continuare a scommettere. Il nostro rapporto con la cucina si sintetizza in questo motto: standardizzare sì, sterilizzare no. Perché stiamo arrivando a un punto della gastronomia dove sterilizziamo la cucina, e il rischio è molto sottile: tu standardizzi un metodo creativo, ma non smetti di ascoltare prodotto e produttore, clientela. La sterilizzazione, invece, rende tutto anonimo. Noi qua vogliamo sentire ancora il sapore del rischio, la paura che il prodotto venga male o che venga “ni”. Noi vogliamo prendere una strada che sia marcata, non possiamo lasciare da parte la nostra identità: va tutta messa lì dentro una empanada.
Questa standardizzazione di qualità, questa serialità, può essere una strada futura della cucina in un tempo difficile come quello che stiamo vivendo?
Io credo che la standardizzazione diventi fondamentale in un modello come la gastronomia, che è un grande modello di business, ma è molto fragile, e lo abbiamo visto nei mesi di fermo. Forse è uno dei business più fragili: hai 4 ore di vendita su 24 ore di giornata, hai i costi fissi, cui aggiungi 14 ore di media di chi ci lavora dentro (ragazzi che fanno due servizi), poi hai le variabilità con una grandissima proporzione di successo della serata che dipende dalla predisposizione del cliente. La ristorazione è un modello super in crisi dal punto di vista economico, ma è uno di quei modelli che può dare molte più soddisfazioni, anche dal punto di vista umano: le più grandi cose che si sono fatte a questo mondo, non dimentichiamolo, sono state fatte attorno a un tavolo. Questa è una parte emozionale, che va messa in conto, per cui la standardizzazione è dovuta: noi oggi dobbiamo vedere la ristorazione come un modello di crescita non esponenziale, ma senza ombra di dubbio non è più un modello familiare con la mamma che fa la pasta e il figlio che serve. Oggi ci sono due modelli nella gastronomia: conduzione familiare o impresa vera e propria, per cui devi metterti in prospettiva imprenditoriale, comunque entrambe molto stimolanti.
Se vi chiedessero di portare le vostre empanadas brandizzate Contraste in un altro canale di distribuzione, per esempio nella gdo?
Non è mai tempo perso ascoltare le idee... pensare al lavoro prima di fare è molto più difficile e stimolante, noi stiamo lanciando questo progetto perché è molto vero ed emozionante: Empandas del Flaco è il sogno di Simon Press, il ripieno è suo, il lavoro è suo (uno studio durato un anno, ndr), la ricerca della materia prima è sua, in collaborazione con Nicolò, che è il nostro food scout. La macchina che abbiamo preso è stata riadattata per le empanadas, ne fa mille alla volta. Questo è un prodotto pensato per la massa, mentre per Roc avremo il nostro sito, cureremo personalmente il delivery, con vaschettine della shelf life di 24 ore. Studiamo la versatilità di ogni prodotto e la giusta manipolazione.
Il quarto format, Abere, è incentrato sul vino ed è siglato da Thomas Piras. Piras, ci spiega di cosa si tratta?
Il format è già in essere da sei mesi, si tratta di un progetto di importazione e distribuzione in esclusiva nazionale di alcuni prodotti di nicchia: sono produttori di piccole aziende che non hanno mezzi di farsi conoscere, noi li distribuiamo nel mercato italiano. Il senso della distribuzione era andare a cercare produttori in territori ancora poco inflazionati: Spagna, Germania, Loira, Rodano, zone che permettono di avere prezzi accettabili. È una distribuzione che crede nel rapporto qualità-prezzo e crede nella piacevolezza del vino e nella sensibilità del vigneron: il discorso di terroir oggi è uno degli aspetti più importanti, ma ci sono anche dei produttori bravissimi in territori cosiddetti “secondari”, che con trattamenti a impatto zero in vigna riescono ad avere vini in alta qualità. Un caso eclatante è Clau de nell, un produttore della Loira: Leflaive è la proprietà che fa il Montrachet più caro della Borgogna, 10 mila euro a bottiglia, e la stessa persona con il medesimo know-how compra 15 ettari in Loira... non può fare un vino cattivo, ma fa un vino da 22-30 euro a bottiglia, con lui abbiamo esclusiva per l'Italia. Insomma, siamo in cerca di nuove strade e nuovi territori da scoprire. In questa avventura sono affiancato da Marco Tinessa, vigneron, produttore, che è il mio socio nella selezione. Il nome del format nasce proprio dai nostri ritrovi serali: “ci vediamo a bere”?.
Torniamo a Perdomo: durante il lockdown ha avuto una comunicazione irriverente e ironica su Instagram, ma cosa ha pensato davvero del futuro della cucina?
Quando abbiamo aperto il primo settembre 2015 mettendo come menu uno specchio, stavamo già dicendo che la nuova rivoluzione della gastronomia sarebbe stata una rivoluzione umana. Quella è l'avanguardia gastronomica, cioè la rivoluzione umana appunto. Lo specchio simboleggia il riflesso di te stesso: nel momento in cui tu sai chi sei e sai cosa vuoi, sei a posto. Non ci deve essere una dittatura del gusto, non ci deve essere una sovrapposizione personale al concept, e credo che ora più che mai la gastronomia debba andare verso quel rapporto umano che si è perso: questa è stata la conferma della riflessione che già avevamo fatto. Quando, con Simon e Tommi, eravamo alla ricerca di un luogo per il progetto, ci siamo detti: che cosa vogliamo da Contraste? Che la gente stia bene, ci siamo risposti tutti allo stesso modo. E questa secondo me è la nuova rivoluzione, cioè vivere stando bene, anche con alti e bassi. Contraste significa far stare bene: io non esco in sala, ma non è che non ci sono... Fino all'ultimo cliente resto, poi ho i miei giorni liberi e i miei momenti, ma se non ci sono io o non c'è Thomas, non si sente la sua mancanza. Da Empanadas del Flaco non ci sarà Simon a servirle, ma saremo onnipresenti per la gestualità, per l'umanità insita nel progetto stesso. Ma il fatto di concentrare tutto su di sé è una prigione, è un grande peso, i sogni possono diventare delle prigioni. Noi abbiamo creato libertà, non sogni: fa paura perché non sai cosa ti trovi, ma è quello che ti tiene vivo, perché altrimenti avremmo sterilizzato e non standardizzato.
Il Contraste-pensiero è così, come una fede: supera ogni apparenza, trascende ogni tendenza, e comunica di pancia con una grande intelligenza e libertà. Se fosse un quadro, sarebbe un'illusoria tela di Magritte. Se fosse un filosofo, sarebbe Parmenide, con i suoi studi ontologici. Ora, non ci resta che scoprire dal vivo i nuovi progetti firmati da un trio che continua a guardare (e a esser un passo) avanti.