Generoso, umile, geniale. Pensare a Pino Cuttaia, e alla sua cucina, significa fare un viaggio nei sapori mediterranei, con grande tecnica e altrettanto cuore.
I suoi piatti hanno fatto storia, capaci di traportare in una dimensione contemporanea il mare, i ricordi e la memoria: dalla Nuvola di caprese alla Trasparenza di tenerumi, dall'Uovo di seppia alla Cornucopia di cialda di cannolo. Due stelle Michelin a La Madia di Licata, lo chef sarà impegnato come giudice della quarta edizione di S.Pellegrino Young Chef 2020, in programma a Milano il 21 ottobre 2019.
Assieme a lui, saranno presenti altri giudici: Antonia Klugmann, Marianna Vitale, Matias Perdomo, Anto Janez Bratovž, Ana Grgić e Oana Coantă, che valuteranno i finalisti regionali.Il vincitore della finale regionale accederà, poi, alla finale internazionale del 2020, dove dovrà confrontarsi con i finalisti delle altre 11 regioni in gara.
Ecco cosa ha raccontato Pino Cuttaia a Fine Dining Loves.
È contento di far parte della giuria?
Sì, certo, sicuramente sì. Se un cuoco può dare un contributo nella selezione di nuovi talenti che si mettono in gioco, ben venga. Ho preso parte ad altri tipi di giuria, ma questa con S.Pellegrino Young Chef è una nuova avventura. Fa piacere perché diventi un modello per i giovani, il fatto che sei lì per giudicarli può diventare un motivo di orgoglio.
Che cosa cerca in un S.Pellegrino Young Chef?
Nella selezione di questi ragazzi cerco persone che portano avanti un messaggio: il cuoco contemporaneo è colui che fa cultura, diventa ambasciatore del suo territorio. Quando si sostiene e si dà visibilità a un giovane che magari come me vive e opera in luoghi sperduti, gli si dà la forza e il coraggio di fare impresa nel proprio territorio: questo è un grande aiuto, perché quello che fa S.Pellegrino Young Chef è comunicare al mondo un messaggio attraverso un giovane che può vincere un premio... cucinando.
Che consiglio vuole dare ai finalisti?
Fare il cuoco è un percorso, consiglio di togliere piuttosto che aggiungere, ma questa è un’indicazione: credo che un cuoco giovane abbia un’energia in più che magari col tempo diventa sapere. Quell'energia in più può essere l'inventiva, ma anche quel "casino" o quell'interpretazione intelligente. Oggi ci sono molti cuochi che diventano tali magari dopo una laurea, quindi sono più informati, hanno una formazione e preparazione diversa rispetto a quando ho iniziato io a fare questo mestiere. Un tempo si entrava dopo le medie a lavorare, mentre oggi concettualmente i giovani sono più preparati e più sensibili. Quello che manca è l'esperienza, quella non la regala nessuno. Credo comunque che il talento si percepisca: si vede se qualcuno ha qualcosa in più da dire rispetto agli altri.
Quali sono gli elementi che possono fare la differenza durante una competizione come SPYC?
Sicuramente l’identità data dalla propria provenienza: un’interpretazione in chiave contemporanea del proprio territorio fa la differenza, altrimenti sembra di trovarsi di fronte a una cucina senza radici. Chi sarà più vicino al proprio territorio, secondo me, avrà una chance in più rispetto agli altri, perché avrà una cucina che gli assomiglia e non una cucina lontana da un ricordo o da una memoria, più artistica e meno di pancia.
C’è un augurio che vuole fare ai giovani chef che partecipano al concorso?
Anche l'ultimo non sarà mai l'ultimo, ricordatelo. Questo lo racconta la storia: basti pensare al mondo della musica, a Vasco Rossi arrivato ultimo al Festival di Sanremo e poi nella vita è diventato il primo. Questo ci insegna che non bisogna mai demordere o sentirsi sconfitti. Io per esempio non sono un cuoco da competizione: quando giocavo a tennis, mi allenavo con gente brava che giocava in C1, però nelle partite non ero competitivo. Avere la componente agonistica non significa essere bravi, è un'attitudine che bisogna avere nel sangue, c’è l'hai fin da piccolo. Chi non la cerca fa un suo percorso tranquillo, naturale, per cui non è detto che chi arriva ultimo non sia il primo.
Si ricorda i suoi esordi in cucina?
Prima di fare il cuoco, avrò avuto 14-15 anni, dissi una bugia ai miei amici, ovvero che sapevo fare gli spaghetti con le patelle di mare: avevo garantito che erano buonissimi, pur non avendoli mai assaggiati né cucinati, ma solo per intuito. Una volta preparata, la pasta è venuta bene, però i gusci delle patelle si erano staccati dal mollusco... avrei dovuto sgusciarle prima, ma mi mancava l’esperienza. Ho sempre avuto la passione per il cibo, ma lo vedevo come fatto intimo, nel senso che non mangiavo dalle persone di cui non mi fidavo o nelle case dove non mi piaceva l'odore percepito. Adesso questo atteggiamento l’ho perso, ma sono sempre molto attento all'aspetto igienico: è un fattore che mi caratterizza ed è quello che trasferisco ai ragazzi.
Secondo lei qual è la caratteristica che bisogna avere per riuscire nel lavoro di chef?
Si tratta di un lavoro molto duro. Come dice Mauro Uliassi, "bisogna essere dei maratoneti". Siamo sempre sotto pressione, sotto tiro. Quando però fai il lavoro che hai deciso di fare e hai la libertà di decidere, tutto viene in secondo piano, per cui il sacrificio è naturale. Il cuoco è generoso, deve essere una persona che dà, io lo definisco la mamma contemporanea: provate a immaginare un cuoco tirchio... cosa porterebbe a tavola? Il cuoco deve essere generoso.