Riccardo Canella potrebbe essere un manifesto. Un’immagine di quelle da mostrare a chi sostiene che i giovani italiani sono dei fannulloni scansafatiche, che i loro coetanei all’estero invece.
Ecco quindi Riccardo Canella, classe 1985, sous chef del Noma. A Identità Golose 2017 l’abbiamo visto salire sul palco nella sezione Identità Giovani, dove ha presentato un calamaro, pescato dalle sue origini venete e ricomposto con estetica nordica. Canella l’ha servito crudo, cosparso con nero di seppia e garum, bucce di limone - la nota citrica in Danimarca l'avrebbe presa dalle formiche - aglio nero e capperi di ribes nero, brodo di alga e riduzione vegetale. “La tecnica è un linguaggio, ma se non c’è gusto è fine a se stessa” ha ricordato dal palco, quasi ad anticipare le obiezioni di chi, nella New Nordic Cuisine di cui Redzepi è stato il creatore, vede molta testa e poco cuore. “Non si va al Noma solo per cenare, è un’esperienza totalizzante: i piatti non sono piacioni come quelli italiani, devono mettere in difficoltà il cliente".
Quali sono i suoi progetti, in attesa che "il nuovo Noma" riapra, dopo la chiusura di fine febbraio?
Da marzo a giugno sarò in Messico per il pop up. Il primo, in Giappone, è stata un’esperienza molto dura ma affascinantissima dal punto di vista culturale. I giapponesi sono ossessionati dall'estetica: la loro precisione in cucina, ma anche l'approccio al cibo, la gestualità, i riti gastronomici mi hanno ispirato tantissimo.
Com’è arrivato a quello che, all'epoca, era il miglior ristorante al mondo?
Sono arrivato nel settembre 2014 per uno stage di 3 mesi. Sono rimasto e diventato capopartita, poi nel giro sei mesi sous chef: una carriera veloce, ma lì tutto è diverso.
Quali erano state le sue esperienze precedenti?
Dopo due anni di scuola alberghiera ho capito che la cucina era la mia strada. Era una cosa viscerale, un richiamo: non ho scelto la cucina, è lei che ha scelto me. Ho lavorato da Luigi Biasetto e con i fratelli Alajmo, ma sentivo il bisogno di fare delle esperienze all'estero.
Ho lavorato tre mesi in un bistrot norvegese - un luogo da pirati, pochissimo fine dining - mettendo da parte i soldi per lo stage al Noma e capendo un po' la mentalità scandinava.
Com'è stato l'inizio al Noma?
Durissimo. Noi italiani lì siamo 5, e una - Jessica, capopartita - è lì da quattro anni, ma su di noi c'erano molti pregiudizi: siamo visti come quelli indisciplinati, che non conoscono l'inglese. Una cucina come quella del Noma è una gabbia di leoni, bisogna avere forza di volontà e lavorare sodo.
È difficile per lei vivere in Danimarca?
Assolutamente no. La Danimarca è un piccolo paradiso, anche se me lo godo poco, vivo la realtà del Noma al 100%. Poi io sono innamorato del Nord, sono un nordico nel cuore. Mi piace la loro mentalità: si prendono molto cura degli altri, hanno un grande senso di socialità e appartenenza che qui in Italia stiamo andando a perdere, hanno creato una società senza divisioni e classi sociali. Si prendono cura gli uni degli altri, e chi eccelle impara a non farlo pesare agli altri.
Com'è stata "l'ultima cena" del Noma?
Non c'ero agli inizi dell'avventura, ma ho il peso della loro eredità sulle spalle, mi sento parte della squadra. In questi anni ho visto il Noma evolversi: non è più quello di cui mi sono innamorato e io stesso ho una maturità diversa. Durante la festa ero commosso, è stato molto intenso.
Cosa vede nel futuro del Noma?
Il nuovo progetto dell'urban farm è oltre l'idea canonica di ristorazione, Rene è già su un altro livello mentale. Nel suo futuro vedo più lavori con la fondazione e con le scuole, a cui tiene già corsi di foraging, qualcosa che non lo annoi e soddisfi la sua fame continua, come ha fatto Ferran Adrià.
La lezione più importante imparata in questi anni?
La disciplina e il rispetto dei tempi. Rene è una persona precisissima, con uno straordinario senso estetico ma anche una grande umiltà. Poi se c'è una cosa che ho capito all'estero è che la cucina e il cibo rimarranno le poche cose che potranno salvare noi italiani.
Chef che la ispirano in Italia?
Riccardo Camanini, Enrico Crippa e gli Alajmo: nessun ristorante in Italia riesce a raggiungere la profondità di gusto de Le Calandre.
Quale pensa sia stato il motivo del suo successo al Noma?
Ho tanta forza di volontà ed ero disposto a qualsiasi cosa. Non sono il più bravo, ma ho dimostrato che potevo dare tutto me stesso. Rene si innamora delle persone, non solo di quello che sanno fare a livello professionale, ma di chi sono, e sa metterle nei posti giusti. Gli piaceva la mia leadership: di me ha preso tutto il pacchetto, a 360 gradi.
Nel suo futuro c'è un ritorno in Italia?
Sicuramente. Nel nostro paese c'è ancora tanta ricerca da fare: nessuno ha le nostre materie prime. Mi piacerebbe aprire un posto con un'azienda agricola che permetta di autoprodurre al 100%. Cme stile mi porterò dietro tanto Noma: ho acquisito un’eleganza e una naturalezza nordiche, ma su una base classica; la mia cucina è essenziale e pulita, ma non dimentica la tradizione.