È arrivato il momento di smetterla di pensare che la gastronomia a Roma sia legata a doppio filo con tradizioni e vecchie guardie.
Da un paio di anni, infatti, le regole del fine dining romano hanno subito un cambiamento, un click che ci si aspettava da tempo. Un'aria di rinnovamento che si è cominciata ad avvertire una manciata di anni fa, e che ora, mentre scriviamo, sta evolvendosi senza sosta. Antonio Ziantoni, Ciro Scamardella, Jacopo Ricci e Piero Drago, Daniele Lippi: sono solo alcuni dei nomi di chi sta prendendo le redini di cucine importanti. Segni particolari? Media anagrafica bassa e grande determinazione.
Nuove idee, nuove mani, nuovi strumenti, che attingono tutti da bagagli e insegnamenti solidi: chi ha lavorato in cucine di livello, chi in quelle cucine è stato addirittura sous chef a età insospettabili, chi ha ricevuto fiducia a piene mani. L’alta cucina della Capitale parla sempre più una lingua fresca e giovane, dove la carbonara è poco ammessa e, quando c’è, ha uno studio di ingredienti e preparazioni molto profondo, che sa essere anche sfrontato.
Cominciamo la narrazione di questa nuova guardia capitolina dall'inizio, dalle prime mosse di Retrobottega, che nel 2015, aveva concepito nel centro di Roma qualcosa che non c’era: un ristorante gourmet fatto di informalità (dovevi apparecchiarti da solo) e di una ricerca costante e sempre più spinta. Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice sono stati due degli apripista di un nuovo modo di concepire la cucina a Roma e non solo. Avevano poco più di trent’anni, con esperienze in cucine importanti come quella del Piazza Duomo di Alba.
Assieme a loro, fuori dai circuiti gourmet, c’erano i ragazzi di Mazzo, che hanno portato per primi un concetto di trattoria contemporanea, oggi assodato e irrinunciabile. Marco Baccanelli e Francesca Barreca hanno iniziato sei anni fa con un ristorantino in periferia diventato mecca di ogni amante del buon cibo, e avevano poco più di trent’anni. Oggi hanno fatto un salto ancora più in avanti: girano il mondo con la loro cucina e la innestano su quella dei Paesi in cui vanno.
Una delle chiavi di lettura per definire la nuova cucina a Roma può, in effetti, essere l'abbattimento di barriere. Gli insegnamenti non sono più quelli imprescindibili, ma si viaggia: gli stessi maestri hanno viaggiato molto. Internet lega tutto, le connessioni sono più veloci e la curiosità non pone limiti alle esperienze da fare. Anche solo con gli occhi.
Antonio Ziantoni, Zia Restaurant
Photo credit: Courtesy of Aromi Creativi
Zia è il ristorante che stava sulla bocca di tutti, appena aperto. La squadra di gourmet e appassionati ci si è fiondata, ghiotta di una novità che si aspettava da tempo. Ha solo un anno il ristorante di Antonio Ziantoni, nato nel 1986 a Vicovaro e tecnico come pochi se ne trovano nella Capitale. In un solo anno praticamente tutti hanno assaggiato i suoi piatti e non uno è uscito scontento da questo ristorante nella parte meno battuta della centralissima Trastevere.
La cucina di Ziantoni è decisamente precisa. Prima di approdare alla regia di Zia, lo chef ha fatto una gavetta invidiabile. Alberghi, poi George Blanc a Vonnas, Francia, Gordon Ramsey a Londra e quattro anni nella brigata del bistellato Pagliaccio. Anthony Genovese è per lui un mentore (e che mentore) e gli ha dato quel piacere della tecnica che riporta nei suoi piatti unitamente a sapori, accostamenti bilanciati o azzardati (ma pulitissimi).
La sala, scura ed elegante, è gestita dalla compagna e co-proprietaria Ida Proietti, sempre gentile, e la parte di sala e vini è affidata a Marco Pagliaroli. Che la affronta in maniera abbastanza amichevole e ha sempre ottimi consigli.
La cucina? Non quella romana da osteria. Come dicevamo lo chef Antonio Ziantoni ama la tecnica ma soprattutto l’ingrediente: i sapori del suo menu degustazione sono confortevoli tanto quanto spinti, ma tutto è ben eseguito e gradevole.
Per iniziare, una Mozzarella mozzata a mano da lui stesso. A seguire un Gambero rosso con rabarbaro e fragoline in tre consistenze, capolavoro di dolcezza e accostamento. E poi i Ravioli del plin ripieni di Bleu d’Auvergne immersi in brodo di cipolla con sentori di cannella, una Rana pescatrice con burro francese, capperi e liquirizia superlativa e fois gras con mosto cotto, che si abbinano perfettamente.
Antonio Ziantoni, il cui nome comincia a girare anche sulle bocche dei mangioni internazionali, è preciso, giovane e vuole andare avanti e osare sempre di più. Nelle sue parole si avverte sempre un’idea: un sottofondo di sfida con se stesso e, allo stesso tempo, di gioco. Per non sbagliare, ma anche per continuare a divertirsi con il suo staff. Una realtà giovane, che sta seguendo il binario giusto.
Ciro Scamardella, Pipero
Photo credit: Andrea Di Lorenzo - Courtesy of Ristorante Pipero
Ciro Scamardella, trentenne, è l'executive chef del ristorante Pipero, in centro a Roma, di cui ha preso le redini abbastanza inaspettatamente e, come dice in un’intervista, con una buona dose di coraggio. Ha trovato il patron Alessandro Pipero a un semaforo e, sapendo che il vecchio chef Luciano Monosilio sarebbe andato via, si è proposto.
Nato a Bacoli, nel Napoletano, lavora in cucina da quando ha 17 anni: da lavapiatti a chef stellato (una stella che è stata riconfermato quando era entrato nelle cucine di Pipero da pochissimo), passando per tutta la trafila classica del cursus honorum della cucina. Aveva un’eredità di 7 anni da cambiare, e non è tipo che non stia alle sfide.
Scamardella è cresciuto facendosi da solo, ha fatto scuola di cucina a Napoli e poi ha cominciato a lavorare dietro i fornelli, dai 1500 coperti in ristoranti di hotel 5 stelle alla corte di Martín Berasategui, il più stellato degli chef spagnoli. Dopo un periodo in una cucina che era una macchina perfetta è arrivato ai fornelli di Anthony Genovese (ormai è chiaro che sia lui il principale maestro della nuova guardia) e, quindi, da Roy Caceres. Qui è stato a fianco dello chef colombiano, anche come fido sous chef per uno dei sodalizi più riusciti di Roma.
Ma se devi essere coraggioso, devi spiegare le ali, così Scamardella ha deciso di prendere le redini del ristorante Pipero. Il suo menu, oggi, presenta la tradizione napoletana in chiave ipermoderna: i suoi Ravioli ripieni di genovese di polpo sono diventati leggendari, così come la Mozzarella con sopresa: da mangiare con le mani, si strizza l’acqua della mozzarella che cade in un piatto sottostante e condisce un’altra creazione.
Un modo di fare cucina che prende spunto dai maestri e una gestione che sembra, a vederla da fuori, una gara tra amici per migliorarsi. Le sue pagelle ironiche sulle stories di Instagram mostrano una brigata che si diverte, ma lavora sodo. La ricerca è al primo posto: della tecnica, dell’osare e del cibo, con un occhio sempre alla sua tradizione partenopea. L’essere giovane lo porta a gestire una cucina, un programma tv ed eventi esterni con piacere. Non è uno che si tira indietro. E ragiona costantemente su nuovi piatti, cercando di migliorare quelli ormai assodati con una pazienza certosina. Tipo i nuovi Ravioli ripieni di Taleggio, ponzu e alloro, per citarne uno.
Piero Drago e Jacopo Ricci, Jacopa
Photo credit: Courtesy of Jacopa
A Trastevere, negli ultimi tempi, non è sorto solo Zia. Da qualche mese, infatti, è nato Jacopa, la nuova creatura di Jacopo Ricci e Piero Drago, due chef poco più che trentenni che lavorano insieme da una vita.
Compromesso zero, ingredienti eccellenti (ed etici) e una cucina che si esprime senza barriere: se hanno un’idea, la fanno. E potete giurarci che non ci vanno giù leggeri.
Nella cornice di un nuovo piccolo hotel, dove da citare ci sono sicuramente anche gli ottimi cocktail e una bella terrazza. Abbiamo conosciuto Piero e Jacopo alla loro prima esperienza di gestione di una cucina, dopo una significativa collaborazione con lo chef Anthony Genovese del Pagliaccio. E già in quell’occasione ci avevano stupito: la loro carta è diretta come un pugno in faccia, che può rivelarsi alla fine una carezza.
I prodotti sono rispettati in maniera reverenziale e la cucina ci gira intorno in maniera brutale e bellissima. Le orecchie di maiale, per esempio o, ancora meglio, un’intera anatra arrosto tagliata e ricomposta di cui si mangia tutto: dalla testa al fois, con petto e cuore. Dagli amuse bouche si percepisce che non hanno paura di osare, e la cena continua in questo senso. Ecco, Jacopo e Piero sono la perfetta incarnazione di una ristorazione non solo giovane, ma che si butta a mille in una città dove spesso si ha paura ad uscire dagli schemi di carbonara e gricia.
Tutto lo staff è giovane, le idee viaggiano veloci e si sono assolutamente meritati un posto nelle novità della Capitale. Sono anche loro un pezzetto della rivoluzione in atto.
Daniele Lippi, Acquolina
Daniele Lippi è nato nel 1990. E lavora in cucine di altissimo livello da almeno dieci anni. Un po’ timido, è stato, giovanissimo, braccio destro dello chef Angelo Troiani (altro chef che si spende moltissimo nella formazione dei giovani). Abbastanza per considerarlo il suo maestro di riferimento, quello che gli ha dato una fiducia totale. Ma Daniele si è fatto le ossa anche in alcuni dei migliori ristoranti del mondo e ha visto delle cose che si porta nelle mani senza quasi rendersene conto. Tra tutti si possono citare il Pavillon Ledoyen di Yannick Alléno e l’Alinea di Grant Achatz, spettacolare tristellato di Chicago.
Oggi, da poco tempo, guida la cucina del rinnovato Acquolina, stellato di pesce a Roma, succedendo all’amico Alessandro Narducci, prematuramente scomparso, e allo stesso Troiani, che l’ha traghettato fino ad ora. Insomma, ora lo chef Daniele Lippi può spiccare il volo e lo farà omaggiando il suo amico Alessandro e giocando con i viaggi fatti e il territorio. Un menu non esclusivamente di mare e di pesci, ma anche, in parte, di terra.
A lui piace dire che quello che si sente nei suoi piatti è frutto soprattutto della sua esperienza italiana, ma quando mi è capitato di assaggiarlo ho sentito un miscuglio perfetto di influenze racchiuse in un boccone. Se essere giovani chef significa, come abbiamo detto, anche essere chef viaggiatori, allora Daniele Lippi ne è un esempio più che calzante. Preciso, con la mente aperta, ricettivo: una delle nuove realtà da provare assolutamente.
Andrea Antonini, Imàgo all’Hassler
La notizia che Francesco Apreda avrebbe lasciato la cucina dell’Imàgo all’Hassler, uno dei ristoranti più belli della città, ha sconvolto un po’ tutti. Chiunque si sarebbe trovato ad affrontare il fantasma di una seconda stella Michelin nell’aria, quello di un sodalizio apparentemente indissolubile con uno dei migliori chef del panorama romano e pure il fatto concreto di mantenerla, la stella.
Beh, è arrivato uno chef che ha 28 anni: Andrea Antonini. All’inizio ci si chiedeva ruffiani chi fosse, da dove venisse: “Ma perché non hanno scelto quello? Perché non quell’altro?”. Ecco le nostre risposte: Roy Caceres, Andrea Fusco, Quique Dacosta - dove ha lavorato nel laboratorio di creatività -, El Celler de Can Roca e Piazza Duomo di Enrico Crippa. Non crediamo serva aggiungere altro.
Imàgo ha colto la palla al balzo per rinnovare non solo lo chef, ma tutta la brigata, che non supera i 30 anni: l’età media è bassissima e la mano dello chef Antonini si è sentita da subito.
Attivo da aprile, il menu non è di quelli che fanno balzare sulla sedia per creatività ed è giusto così. Ma la tecnica che ha questo ragazzo sembra essere tra le più impeccabili di Roma. Due menu degustazione i cui piatti hanno massimo quattro ingredienti sulla carta e il tutto votato alla semplicità: di materia, di assaggio e di presentazione. Tagliolino di Coniglio e Cedro, Capasanta Pomodoro e Finocchi, Piccione Camomilla, Lardo e Borragine sono esempi di una transizione targata anni ’90, pulita e impeccabile. Il tempo per l'effetto “wow” c’è sempre, la mentalità giusta no, quella bisogna averla dentro.
Andrea Pasqualucci, Moma
L’uscita dell’ultima Guida Michelin ha scombussolato un po’ gli animi dei puritani, ormai poco abituati a cambiamenti improvvisi negli schemi delle stelle. Nella guida di Roma del 2019 è comparso il Moma, ristorante di cui, forse, si sapeva poco o nulla. E invece, con la guida di un ragazzo di 30 anni, Andrea Pasqualucci, ha ottenuto la sua prima stella Michelin.
A ragione? Non a ragione? Per rispondere a queste domande, basta mangiare la sua Gricia con cacio sbronzo. Mangiare non è esatto. Lappare è la parola che ci serve. Leccare anche la carta del piatto della manifestazione a cui l’ha portata. Figurarsi cosa fa nel ristorante.
Lo chef Andrea Pasqualucci ama la tradizione e questo è giusto, non significa sempre tornare indietro o rimanere fossilizzati. Il suo Moma è praticamente un bistrot con una stella, anzi è proprio un bistrot la mattina e uno stellato da tovaglie stirate la sera. Che la sua cucina prenda dalla tradizione è vero, ma non solo: diciamo che a farla da padrone è l’ingrediente che viene valorizzato al massimo delle sue potenzialità.
In un mondo dove parliamo di zero sprechi e km 0, Andrea Pasqualucci incarna perfettamente lo spirito contemporaneo. Gli scarti che non usa nello stellato passano direttamente al bistrot e in carta non sono solo indicati gli ingredienti, ma a volte anche i produttori. Fichi, Erborinato di Gregorio Rotolo, Mandorle e Balsamico ne è un piatto esempio. Perché è fondamentale sapere soprattutto chi produce la materia prima.
Una grande rete di piccoli produttori, eccellenza, tradizione (ma non troppa) e zero scarti sono tra i requisiti più importanti che un ristorante di qualità deve avere oggi. E poi è sempre piacevole stupirsi.