Tra il disastro nucleare e il magico mondo dei surgelati
Nell’86 ci fu un fatto che paralizzò l’Europa intera: l’esplosione della centrale di Chernobyl. Questa catastrofe portò complicazioni reali sul tema dell’alimentazione ma anche a dicerie dettate dal comprensibile panico generale. Senza capire con quale logica molti ingredienti vennero demonizzati (altri no, nonostante il fatto che fossero coltivati negli stessi territori) e così il marketing dell’epoca ci convinse che era necessario un ritorno ai cibi rurali, naturali e “semplici, come si facevano una volta”. Inutile dire che si trattava di una menzogna poiché i prodotti che vantavano preparazioni “casalinghe” e autentiche si potevano trovare in uno dei posti maggiormente frequentati in questo amabile decennio: il reparto surgelati. Il consumo dei surgelati rilevò numeri di crescita impressionanti, nel 1960 se ne consumavano 20 g pro-capite, nel 1987 si arrivo a 6 kg per persona.
I food trend degli anni ‘80
Ad aggiungersi al meraviglioso mondo dei surgelati ci fu il mais in scatola che diventò un vero e proprio trend. L’insalata fu il termine generico con cui negli anni ’80 si chiamava la rucola. C’era rucola ovunque, come contorno, come piatto principale ma anche come sfondo, se ne mangiò tanta e se ne cestinò una buonissima parte. Iniziò l’era delle trote salmonate, dei carpacci, della famosa e indimenticata pasta con panna e salmone, dei funghi porcini, dell’insalata russa (che di russo aveva ben poco), del vitel tonné (solo da pochi anni ci siamo riabituati a chiamarlo vitello tonnato) e del caviale.
La frutta nostrana venne snobbata a favore della frutta esotica con cui si realizzavano anche composizioni che al giorno d’oggi potremmo definire imbarazzanti. Ananas, mango, papaya, passion fruit e kiwi cambiarono non solo il nostro modo di mangiare i prodotti ortofrutticoli, ma nei casi possibili ci resero in pochi lustri tra i più significativi produttori internazionali. I primi reali contatti con quell’America che correva velocissima verso il suo boom economico e di costume, ci proiettò verso il mondo dei fast food, degli hamburger e degli snack.
Quell’Italia dal palato gentile non badava più al gusto e ai sapori, voleva solo sperimentare ed essere trendy. Lo dimostra anche il cinema italiano di quei tempi che con le sue fortunatissime pellicole ci diceva che gli italiani volevano mangiare aragoste a Courmayeur e bere Champagne nelle calde isole. Ci fu anche il boom dei piatti veloci da preparare e adatti più ai single che alle famiglie: pasta aglio, olio e peperoncino, panini (meglio dire sandwich) e risotti imbarazzanti. Ci fu poi però una rottura tra il modo di mangiare e l’aspetto fisico. Cheeseburger inondati di salse, patatine fritte e panini non sempre garantivano un fisico snello e atletico come i modelli dell’epoca imponevano. Arrivo dunque il momento di yogurt e cereali. Fu così che il pranzo della domenica all’italiana subì un duro, durissimo colpo.
Il nuovo modo di mangiare era veloce, quasi mai nutriente e soprattutto non aveva il suo focus sul gusto bensì sull’apparenza. Nacquero anche le prime mense aziendali (addio dunque anche alle schiscette) che proponevano metri di piatti freddi, insalate capresi, insalate di riso, insalate di pollo e, naturalmente, yogurt. Inconsapevolmente (o quasi) ci ritrovammo nell’universo dei buffet gremiti di canapé, tartine e tramezzini. Dal punto di vista del cibo furono anni bui, ma almeno di continuava a ballare sul mito di John Travolta e dell’immensa Raffaella Carrà.